Porto delle diversità
di Jacopo Ibello
Introduzione
Oggi che i confini delle nazioni europee sono aperti alla libera circolazione, la loro presenza si vede ridotta a meri segni cartografici. I confini, anche quando seguono i fiumi e le montagne, sono infatti creazioni artificiali, che cercano di distinguere i popoli a seconda delle loro caratteristiche etniche, linguistiche o politiche. A volte questi elementi causano veramente “fratture” nel genere umano, che sono all’origine delle differenze nazionali o regionali, ma non sono mai tagli netti. Le zone di confine sono spesso tutto l’opposto, dove le identità e le tradizioni si mescolano e creano ecosistemi unici tanto quanto le nazioni che separano.
Il confine orientale italiano ne è una plastica rappresentazione. Si tratta di una regione dove si alternano e convivono da secoli, in maniera a volte pacifica e a volte conflittuale, etnie e minoranze diverse tra loro. Un’area appartenente sì all’Italia come regione geografica, a cui però non corrisponde necessariamente l’Italia intesa come nazione. Dalla nascita del Regno nel 1861 il confine orientale è mutato più volte, fino a un massimo che includeva l’Istria, Fiume e Zara. Da circa settant’anni si è attestato su una linea che, in maniera irregolare, taglia le Alpi Giulie e il Carso da Tarvisio a Trieste.
Le tensioni etniche tra i popoli di confine vennero esasperate nell’Ottocento dei nazionalismi, in cui italiani, friuliani, sloveni e croati cercavano di affermare la propria identità sotto l’ultimo baluardo degli imperi sovranazionali: la monarchia austro-ungarica. Di cui questo territorio costituiva lo sbocco a mare e, nell’epoca della Rivoluzione Industriale, questo aveva valenza strategica. Trieste e Fiume erano già da secoli i grandi porti sull’Adriatico di Vienna e Budapest: con l’industrializzazione, l’importanza di queste due città crebbe ancora di più, così come quella delle zone montane e dell’Istria, non solo perché attraversate da infrastrutture ferroviarie considerate avanguardie d’ingegneria, ma anche per la presenza di risorse minerarie fondamentali.
I luoghi simbolo di quell’epoca di grande fervore economico, tecnologico e culturale oggi sono divisi in tre Stati diversi e spesso sono espressione del patrimonio industriale, oltre a essere perfetti strumenti per comprendere la storia tumultuosa di queste terre. Per questo compiremo un viaggio dal Golfo del Quarnaro alle Cave del Predil, risalendo l’Istria, la Venezia Giulia e le Alpi, esplorando quei luoghi deputati all’impresa, al lavoro e al commercio che si fecero testimoni dei profondi stravolgimenti della prima metà del Novecento.
Fiume
Fiume e Trieste rappresentavano la vetrina di un impero multietnico e multireligioso. Qui convivevano le varie nazionalità sopracitate ma anche comunità straniere venute qui per avviare industrie e commerci, attirate dallo spirito e dall’atmosfera. Due ambienti urbani quasi unici per l’epoca, in grado di trasmettere quella multiculturalità che oggi sembra quasi un valore obbligatorio per una città che voglia definirsi tale. Un senso di libertà e progresso che in un Paese immenso, che si estendeva fino all’odierna Ucraina ed era in larga parte arretrato, restava per molti un miraggio.
Proprio Fiume è la città che ha vissuto i cambiamenti più radicali. Cento anni fa era quello che oggi chiameremmo un melting pot: quasi la metà degli abitanti erano italiani, un terzo croati, il resto suddiviso tra ungheresi, tedeschi, sloveni e altre nazionalità. Fiume era il principale porto dell’Ungheria, in un certo senso rivale dell’austriaca Trieste, e un luogo di grandi innovazioni tecnologiche.
Oggi la città è profondamente cambiata: la popolazione è composta essenzialmente da croati e il tessuto industriale è quasi scomparso. Consapevole però di questa sua eredità storica fatta di multiculturalità e tradizione operaia, Fiume ha ottenuto il titolo di Capitale Europea della Cultura per il 2020 con lo slogan “Port of Diversity”, in cui il valore del lavoro e del commercio del porto si unisce a quello della diversità come fattore identitario.Dieci anni dopo Essen, abbiamo di nuovo una città che basa il programma di CEC sulla rigenerazione del patrimonio industriale. Nello specifico la trasformazione del cosiddetto complesso Benčić nei pressi della stazione: quest’area ha vissuto tre secoli di sviluppo industriale, a partire dallo zuccherificio del 1752 (noto come Zuccheriera), di cui rimane il monumentale edificio amministrativo risalente al 1786. Questo palazzo barocco, situato all’epoca direttamente sul mare, era la sede di una grande compagnia industriale e commerciale con sedi e impianti da Istanbul all’America.
Allo zucchero seguì, nell’Ottocento, il tabacco: col tabacchificio il complesso prese le dimensioni attuali, impiegando fino a 2600 operai – in maggioranza donne, come spesso accadeva in questo tipo di fabbriche. L’ultima fase industriale di questi stabilimenti fu la Rikard Benčić, produttrice di componenti meccaniche che occupò l’area dal 1945 al 1995. Oggi negli edifici dismessi sono attese importanti istituzioni culturali come il Museo della Città, il Museo di Arte Contemporanea e la Biblioteca Civica, per quella che deve diventare la principale vetrina di Fiume 2020. L’altra attrazione sarà ancorata al Molo Longo, il molo portuale riconvertito a passeggiata con le gru illuminate la sera. Si tratta del Galeb, un’imbarcazione la cui storia riflette quella della città. Costruita nel 1938 a Genova come bananiera per il servizio con l’Africa, venne requisita dai nazisti e usata come posamine nell’alto Adriatico. Affondata mentre era attraccata a Fiume, la nave fu recuperata e ricostruita come nave scuola della marina iugoslava. Fu utilizzata da Tito come yacht presidenziale per visitare e accogliere i capi politici di mezzo mondo, in particolare dei cosiddetti Paesi non allineati, di cui la Jugoslavia era una delle nazioni leader. Il Galeb divenne un’icona di questo movimento, a partire dal viaggio con cui Tito andò a incontrare Churchill nel 1953 dopo la rottura con Stalin. La scena in cui questo yacht entra a Londra dal Tamigi è rimasta famosa nella storia, così come le sontuose feste organizzate a bordo, dove oltre a politici erano ospitati artisti e star internazionali del cinema.
In seguito alla guerra dei primi anni ’90 il Galeb fu abbandonato e, da allora, andò in rovina. In occasione di Fiume CEC 2020 è iniziato un profondo restauro (che include anche i preziosi arredi interni) che trasformerà lo yacht in museo e ostello, attraccato al Molo Longo da cui si gode un’ampia veduta sulla città e sul porto. Ma, al di là dei grandi progetti di riqualificazione, è bello scoprire la grande forza innovatrice che ebbe l’imprenditoria fiumana di fine ‘800 attraverso alcuni luoghi che restano fuori dai circuiti culturali. Incamminandosi verso ovest ci si addentra nella zona industriale che culmina nel cantiere navale “3. Maj” (il 3 maggio 1945 è la data della liberazione di Fiume dall’occupazione nazista). Lungo la strada si incontrano edifici interessanti, come la prima raffineria di petrolio d’Europa del 1883, di cui rimangono gli impianti arrugginiti e l’elegante palazzo in stile razionalista, ricavato dal riadattamento di un risificio nel 1938. Durante il periodo italiano la Raffineria Olii Minerali (ROMSA) era la più grande del Regno. Sul muro di cinta si trova una targa commemorativa in croato e in italiano che ricorda il sacrificio di due partigiani durante la Resistenza, Mario Gennari e Giuseppe Duella, i quali attaccarono nel 1944 il presidio fascista della raffineria.
Proseguendo lungo la strada si raggiunge il luogo simbolo dell’industria fiumana. La città si è resa nota nel mondo soprattutto grazie a un’invenzione bellica fondamentale per la guerra contemporanea: il siluro. Fu ideato da un ufficiale della marina austriaca, Giovanni Luppis, negli anni ’50 del ‘800, che lo perfezionò in un prodotto industriale collaborando con Robert Whitehead, ingegnere inglese che dirigeva lo Stabilimento Tecnico Fiumano, una fabbrica metalmeccanica che si sarebbe trasformata nel 1874 nel Silurificio Whitehead. Nel progetto iniziale di Luppis il siluro, da lui denominato “salvacoste”, non era un armamento navale bensì un arma da lanciare contro le imbarcazioni nemiche che minacciavano la costa. La fabbrica di Whitehead divenne la fornitrice di siluri delle maggiori marine del mondo: oltre all’Austria-Ungheria anche Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Stati Uniti divennero clienti della fabbrica, e la Whitehead aprì filiali un po’ ovunque. Tra i brevetti dell’azienda figurano anche uno dei primi sistemi di puntamento guidato dei missili e il giroscopio.
La produzione di siluri a Fiume continuò fino al 1966, quando lo stabilimento, denominato “Tvornica Torpedo”, fu riconvertito in fabbrica di trattori e motori diesel. Non cessò invece la produzione di siluri Whitehead, grazie agli impianti che l’azienda aveva aperto in Italia (La Spezia, Napoli, Livorno) prima e durante la gestione italiana. Ancora oggi i siluri prodotti da Leonardo si chiamano Whitehead, continuando una tradizione vecchia 150 anni. Il simbolo del silurificio di Fiume è la rampa di prova da cui venivano lanciati in mare i prototipi dei siluri: si tratta di una struttura costruita per la prima volta nel 1866 e ristrutturata più volte. Si trova al di là dello stabilimento dismesso, in riva all’Adriatico e in condizioni di grave degrado. Anche in rovina è però un edificio affascinante, da cui si gode un’ampia vista dal porto di Fiume alle coste istriane. La rampa simulava il lancio dei siluri sia da un aereo che da una nave, contro degli ostacoli posti in mare aperto. La storia di questa industria unica viene raccontanta nel Museo Torpedo situato in un ex magazzino ferroviario nei pressi della Chiesa dei Cappuccini.
Dopo aver scoperto i segreti del siluro è giunto il momento di attraversare il golfo e approdare in Istria, per scoprire storie di miniere e di rivoluzioni.