Miniere, rivoluzioni, architetture
di Jacopo Ibello
È ora di lasciarsi alle spalle Fiume e inoltrarci nell’Istria, la penisola che per la sua posizione è da sempre un naturale crocevia di culture, lingue, popoli. Oggi si trova prevalentemente nel territorio croato, mentre la costa settentrionale appartiene alla Slovenia. Solo una minima parte, corrispondente ai comuni di Muggia e San Dorligo, è ancora italiana. La suddivisione in tre Stati diversi di una regione così piccola (più piccola del Molise) rende bene l’idea della complessità dell’Istria, tanto che ancora oggi vige un regime di bilinguismo. Come a Fiume, la situazione etnica cambiò radicalmente dopo la Seconda Guerra Mondiale: prima del conflitto gli italiani costituivano circa un terzo degli abitanti, concentrati nei centri maggiori sulla costa occidentale, mentre la maggioranza slava abitava soprattutto l’entroterra. Con l’esodo giuliano-dalmata seguito al passaggio della penisola dall’Italia alla Jugoslavia, gli italiani divennero quello che sono oggi: una piccola minoranza linguistica tutelata, circa il 6% degli abitanti nell’Istria croata.
L’Istria è una regione storicamente poco industrializzata, dedita prevalentemente all’agricoltura e, oggi, al turismo. Ma non sono mancate esperienze industriali in cui si sono riflesse le storiche conflittualità etniche. Circa a metà strada tra Fiume e Pola troviamo la valle dell’Arsa, un bacino carbonifero attivo già nel ‘500. Nel XIX secolo l’estrazione decollò a scala industriale, impiegando migliaia di operai e attraendo i primi immigrati. Tra di essi spiccarono i minatori bellunesi per attivismo sindacale di matrice socialista, ma lo spirito era quello internazionalista del tempo, volto a superare le differenze etniche. Le battaglie per migliori condizioni di lavoro erano condotte senza guardare l’origine italiana, slovena, croata o macedone.
Il centro principale di questa storia è Albona, un antico borgo di origine romana che domina la valle dall’alto di una collina. Furono proprio i romani a dare il via ai primi episodi di sfruttamento del carbone. I veneziani lo utilizzavano per produrre la pece con cui costruivano le loro navi. Albona rimase un dominio della Serenissima fino al 1797, quando questa venne “regalata” da Napoleone agli austriaci. Fu sotto l’Austria che questo borgo pittoresco si trasformò in una vivace comunità mineraria multietnica. A sostenere la causa dei minatori e la fratellanza tra le varie nazionalità ci fu una donna, Giuseppina Martinuzzi, pedagogista che cercò di superare le divisioni tra le varie etnie e si impegnò nella diffusione della cultura tra gli strati più poveri della popolazione, spesso composti da sloveni e croati.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale peggiorò ulteriormente le condizioni di vita dei minatori e le cose non andarono meglio col passaggio dell’Istria all’Italia. Nonostante la vittoria nel conflitto, gli anni postbellici furono per il Regno di grave crisi economica e conseguenti agitazioni sociali: il cosiddetto Biennio Rosso. Anche se lontana dal Triangolo Industriale e dalla Pianura Padana, anche in Istria spiravano venti rivoluzionari. Come risposta alle violenze dei fascisti, arrivati anche qui, i minatori nel 1921 si ribellarono proclamando la Repubblica di Albona, uno Stato di ispirazione sovietica basato sull’autogestione della miniera. Non a caso il loro motto era “Kova je nasa”, che nel dialetto locale significa “La miniera è nostra”. Si trattava di una repubblica basata sulla solidarietà internetnica tra i lavoratori, che però ebbe vita breve. Dopo 35 giorni di “indipendenza”, la piccola ed effimera repubblica fu spazzata via dalla violenta repressione del Regio Esercito, coadiuvato dai fascisti locali. L’esperienza della Repubblica di Albona viene considerata il primo caso di resistenza antifascista in Europa.
Negli anni ’30 il Fascismo, seguendo la dottrina dell’autarchia, diede una notevole spinta allo sfruttamento dei pochi giacimenti di carbone italiani. Soprattutto dopo l’invasione dell’Etiopia, che era costata sanzioni economiche, il regime era desideroso di mostrare al mondo che poteva farcela da solo, valorizzando le poche risorse a disposizione. Com’è noto, il carbone italiano fu al centro di un’operazione più propagandistica che economica, data la sua scarsa qualità e quantità. Avvenne nel Sulcis, in Sardegna, dove vennero rilevate miniere ritenute da tempo improduttive, e avvenne anche in Istria. La stessa società statale, l’Azienda Carboni Italiani, che aveva preso in gestione i giacimenti sardi, rilevò anche l’Arsa, la compagnia privata che estraeva il carbone istriano.
E, sempre come in Sardegna, fu avviata un’imponente opera di bonifica della valle con la costruzione di impianti minerari all’avanguardia e nuovi insediamenti urbani secondo il modello fascista delle città di fondazione. La prima a vedere la luce fu, nel 1937, Arsia, detta la “città bianca del carbone” per il colore dei suoi edifici: sorta lungo le sponde dell’Arsa, accanto a un importante giacimento, venne progettata dallo studio del grande architetto triestino Gustavo Pulitzer-Finali, uno degli autori anche del piano di Carbonia. Fa impressione arrivare in questo angolo d’Istria, una terra che generalmente non dà un’impressione di avanguardia, e trovare un paese dall’aspetto così moderno.
La piazza principale, a cui si accede da un portale come se si entrasse in una fabbrica, riprende lo stile razionalista tipico dell’Italia anni ’30, senza però quel monumentalismo che contraddistingue certe architetture di regime. Gli edifici di Arsia, seppur moderni, non sono fuori posto rispetto al tessuto urbano minuto dei villaggi istriani. Tra questi si distingue quello che doveva essere il fulcro della vita del paese, oltre alla miniera: la chiesa di Santa Barbara. Immancabile in ogni villaggio minerario, il tempio dedicato alla protettrice dei minatori ha una forma che si dice ispirata a una barca rovesciata, metafora della chiesa come imbarcazione nel mare della vita terrena.
L’altro edificio simbolo è l’Amministrazione della Miniera, un imponente (questo sì) palazzo situato fuori dal centro, accanto alla centrale termica. È una delle poche tracce rimaste del motore della vita di Arsia, la miniera di carbone aperta fino al 1966. Successivamente ospitò altre industrie per essere abbandonato definitivamente negli anni ’90, e da allora è stato lasciato nel degrado. La miniera di Arsia fu teatro di un gravissimo incidente nel 1940, quando un’esplosione uccise 186 minatori, in larga parte manodopera locale ma anche immigrati dal Veneto, dall’Emilia, dalla Sardegna e da altre regioni italiane. La più grave tragedia dell’industria mineraria italiana.
L’urbanistica residenziale era quella tipica dei villaggi minerari: l’architettura delle abitazioni variavano a seconda del livello dei dipendenti (funzionari, impiegati, operai) e della loro condizione personale (scapoli o con famiglia). Il meglio era rappresentato dalle “Villette”, case lungo il fiume dotate di giardino e acqua calda, destinate a direttori e ingegneri.
Con il poderoso incremento dell’attività mineraria alla fine degli anni ’30, l’antico borgo di Albona si rivelò inadatto ad accogliere migliaia di lavoratori immigrati anche da regioni d’Italia molto lontane. Così, ai piedi della collina, sorse un nuovo impianto di estrazione chiamato Pozzo Littorio, con annesso abitato dal nome Pozzo Littorio d’Arsia, poiché fu annesso al comune della neonata cittadina mineraria. Questo fu l’ultimo dei nuovi insediamenti voluti dal Regime, fondato nel 1942 in occasione del ventennale della Marcia su Roma.
La volontà celebrativa si riflesse non solo sul nome, ma anche sull’architettura e sull’urbanistica, decisamente più spinte verso la retorica fascista rispetto ad Arsia. Fu incaricato del progetto l’architetto pesarese Eugenio Montuori, che aveva lavorato già a Sabaudia, Aprilia e Carbonia e, dopo la guerra, avrebbe collaborato con Annibale Vitellozzi alla nuova stazione di Roma Termini. La pianta di Pozzo Littorio (dal 1943 Piedalbona) è a maglia ortogonale, in riferimento alla tradizione romana di cui il Fascismo pretendeva di farsi portatore nell’epoca moderna. La Torre Littoria nella piazza principale, compatta e massiccia, si rifà alle torri comunali medievali e si erge su un edificio porticato a due piani detto Casa CEVA (dal nome del suo progettista, il famoso Cesare Valle). Oggi l’effetto visivo della torre è andato perduto a causa del rialzo di altri due piani della casa. Per la chiesa di San Francesco, infine, Montuori guardò alle architetture rinascimentali toscane.
Al posto delle bucoliche villette di Arsia si preferirono i “Casarmoni”, palazzine popolari certamente meno accoglienti ma più efficaci nell’accogliere migliaia di nuovi minatori insieme alle loro famiglie. Lo “skyline” è, oggi come allora, dominato dalla torre di estrazione del 1940. La cui scritta in cima alle ruote ci ricorda che la gloria fu breve. In seguito all’armistizio del 8 settembre 1943, insieme al Friuli e alla Venezia Giulia, anche l’Istria non divenne parte della Repubblica di Salò ma di una regione occupata e amministrata direttamente dal Terzo Reich: l’OZAK, la Zona Operazioni del Litorale Adriatico. I minatori della valle dell’Arsa organizzarono la resistenza contro i tedeschi e spianarono la strada all’Esercito di Liberazione Jugoslavo guidato da Tito. Dopo il 1947 questi territori entrarono nella Repubblica Socialista di Croazia, Stato della Federazione Jugoslava. La stragrande maggioranza degli italiani, anche coloro che non avevano sposato la causa fascista, emigrò per evitare persecuzioni e vendette.
Le miniere continuarono a operare sotto il nuovo regime: Arsia fino al 1966, Piedalbona chiuse nel 1988. All’iniziale mancanza degli italiani si supplì con l’immigrazione di abitanti da altre zone della Jugoslavia, come i bosniaci, cambiando così radicalmente una composizione etnica che era rimasta più o meno la stessa per secoli. Ma non furono gli unici cambiamenti: l’antico borgo di Albona, che era stato protagonista della ribellione comunista, si spopolò a favore della più moderna parte bassa. Oggi alcuni artisti tentano un ripopolamento del centro storico aprendo atelier e gallerie; gli storici palazzi delle famiglie più importanti, alcuni davvero notevoli, sono stati ristrutturati. Uno di essi ospita l’interessante museo civico, dove è stata ricostruita una miniera di carbone.
Il sito della miniera, dopo anni di abbandono, ha goduto recentemente di un rinnovato interesse, ospitando la Biennale di Arte Industriale e divenendo l’obiettivo di un ambizioso progetto che mira a trasformare le gallerie in una città sotterranea dedita all’arte e alla cultura. La piccola e futurista Arsia, invece, ha iniziato a valorizzare e promuovere, anche a scopo turistico, il suo patrimonio fatto di architetture all’avanguardia e storie di sacrificio di migliaia di minatori. I due comuni, a causa della comune identità storica, sono gemellati con Carbonia.
Ora volgiamo lo sguardo a Trieste, città simbolo di questa area di confine incontro tra mondo mediterraneo, mitteleuropeo e balcanico.