Il porto dell'impero
di Jacopo Ibello
Dopo Fiume e l’Istria, ci avventuriamo nella terza tappa del nostro viaggio alla scoperta del confine orientale italiano. Lo facciamo ponendoci una domanda: cosa succede quando una città cambia improvvisamente la sua posizione geografica? A molti può sembrare un ossimoro questa frase. Come fa una città a cambiare posizione? Soprattutto quelle città, come le nostre, che hanno centinaia, se non migliaia di anni di storia alle spalle. Quando guardiamo le carte antiche, puntualmente le troviamo lì, sempre allo stesso posto.
Eppure la geografia non è qualcosa di immutabile. Le azioni degli uomini che determinano gli eventi della storia possono causare cambiamenti radicali, che stravolgono il destino di una città e la obbligano a reinventarsene uno nuovo.
Cosa vuol dire per una città cambiare all’improvviso la propria posizione, trovarsi da un giorno all’altro da centro a periferia? Prendiamo Trieste, che nel 1918 si trovò dall’essere il principale porto di uno dei più grandi imperi d’Europa a uno dei tanti, per di più in posizione periferica, di uno dei Paesi più arretrati, l’Italia. Il Regno era sì uscito vittorioso dalla Prima Guerra Mondiale, combattuta proprio per integrare le terre irredente come Trieste, ma la sua condizione economica era estremamente grave. Il capoluogo giuliano si trovò in concorrenza con altri porti italiani, come Genova, che servivano un entroterra già ampiamente industrializzato. Nell’entroterra di Trieste c’era solo una landa dedita all’agricoltura.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la città divenne protagonista di un vero e proprio boom, grazie alla sua posizione strategica di unico affaccio al mare dell’Austria. Fino a un secolo prima era stato un piccolo borgo di pescatori sorvegliato dal Castello di San Giusto, ma la decisione da parte dell’Imperatore e Arciduca d’Austria Carlo d’Asburgo di realizzarvi un vero porto commerciale ne cambiò per la prima volta il destino. Venne creato un porto canale, il Canal Grande, e tutt’intorno un nuovo quartiere, noto oggi come Borgo Teresiano (in onore della figlia di Carlo, Maria Teresa).
Nel 1857 arrivò a Trieste una delle più grandi opere infrastrutturali del secolo, la Ferrovia Meridionale. Questo capolavoro di ingegneria, la prima ferrovia di montagna al mondo (il tratto che supera il Passo del Semmering è oggi parte del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO), mise la capitale Vienna e altri centri importanti dell’impero in collegamento col porto. Indirettamente anche quei territori come l’odierna Repubblica Ceca, che furono il polmone industriale del vasto dominio austro-ungarico, trovarono in Trieste una porta verso il mondo per i propri prodotti.
La Südbahn ancora oggi ha un ruolo chiave nel connettere Trieste al resto d’Italia ma anche d’Europa, rivelandosi anche dopo oltre 160 anni determinante per il porto della città. L’arrivo in treno a Trieste è quasi lo stesso di metà Ottocento: superata Monfalcone, ci si immette sullo storico tracciato che, sinuosamente, segue la costa offrendo vedute spettacolari sul golfo. Nell’ultimo tratto si vola letteralmente sopra le case di Barcola percorrendo lo storico viadotto, prima di entrare nella Stazione Centrale. Denominata all’epoca Stazione Meridionale, risale al 1878 ed è uno dei tanti edifici che richiamano l’eredità austriaca di Trieste. Accanto non passano inosservate le rovine dei monumentali silos che accoglievano i treni merci, ma non solo. Tra il 1943 e il 1945 partirono dai silos oltre 150 treni carichi di prigionieri destinati ai campi di concentramento e di sterminio. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, sempre qui vennero alloggiati, in condizioni indecenti, i profughi giuliano dalmati.Questa ferrovia era però privata, gestita dalla potente famiglia di banchieri Rotschild. Considerato il ruolo strategico di Trieste, lo Stato decise di realizzare un sistema di linee noto come Neue Alpenbahnen o, più impropriamente in italiano, Ferrovia Transalpina. Impropriamente perché, per l’appunto, non si tratta di un’unica ferrovia come la Meridionale, ma di svariate linee in grado di collegare la città boema di České Budějovice col porto dell’impero. L’ultima tratta parte da Jesenice, cittadina del nord della Slovenia collegata all’Austria dal Tunnel delle Caravanche, e raggiunge Trieste dopo un difficilissimo percorso tra le Alpi Giulie e il Carso. La ritroveremo nell’ultima parte del nostro viaggio lungo il confine. Tra linee già esistenti e di nuova costruzione il programma per un collegamento pubblico e alternativo al mare fu completato nel 1906.
L’arrivo a Trieste, dopo un susseguirsi di gallerie sotto il Carso, avveniva nella magnifica stazione oggi nota come Campo Marzio. La guerra ha lasciato il segno su questo splendido esempio di architettura ferroviaria, privando le piattaforme dei binari di una magnifica tettoia in vetro, tipica delle stazioni ottocentesche. Oggi vi si trova uno dei principali musei ferroviari italiani, focalizzato ovviamente sullo sviluppo di questo trasporto nel nord-ovest dell’Italia. Attualmente è in corso, da parte di Fondazione FS Italiane, un profondo restauro della struttura che le restituirà la storica tettoia e la trasformerà in stazione-museo, da cui partiranno treni storici che raggiungeranno anche la Slovenia. Da Campo Marzio partivano anche alcune linee per l’Istria, tra cui quella che giungeva ad Erpelle, oggi di nuovo percorribile grazie a una pista ciclopedonale, inaugurata nel 2010.
Trieste è dunque, lo abbiamo detto, votata al suo porto da circa tre secoli. Lo vediamo plasticamente da quante aree del suo tessuto urbano sono state dedicate a questa funzione. Dal Canal Grande degli inizi al Porto Vecchio ottocentesco fino ai moli contemporanei, Trieste ha adeguato la sua forma a seconda delle trasformazioni dei traffici marittimi, come ogni città portuale di questo mondo fa, da sempre.Certamente, l’area più interessante da scoprire perché simbolo dell’epoca del massimo splendore triestino è il Porto Vecchio. Oggi si passeggia tra i viali deserti e gli imponenti magazzini abbandonati, ma tra Otto e Novecento questa città nella città era un brulicare di merci, spedizioneri, operai, il cui duro lavoro fu all’origine della grande ricchezza raggiunta da Trieste, espressa dalle magnifiche architetture del suo centro storico che turisti da tutto il mondo vengono ogni anno ad ammirare.
Oggi è straniante lasciare il traffico di auto e persone che riempono la zona intorno alla stazione, al terminal degli autobus e delle navi, ed entrare in questa vera e propria città fantasma nel cuore di Trieste. Il Porto Vecchio si estende per oltre 600mila metri quadrati: svuotato dei suoi traffici di spezie, di caffè, di macchinari, di tessuti, sembra di camminare in mezzo a dei giganti addormentati. I giganti sono questi immensi magazzini “travestiti” da palazzi aristocratici, la cui bellezza nemmeno la rovina e l’abbandono decennale possono cancellare. Difficile credere che qualche tempo fa questo complesso dal fascino indiscutibile abbia rischiato di scomparire. Magari i detrattori della sua conservazione obietteranno che ora regna l’abbandono, ma questo non è necessariamente una colpa degli edifici, ma di chi avrebbe dovuto pensarne un nuovo utilizzo. Non sfugge in questo senso un pensiero alla Speicherstadt di Amburgo, di cosa sia oggi quel luogo per quella città. Ma anche per la somiglianza del Porto Vecchio con i grandi porti del Nord Europa, che è ciò che lo rende unico in Italia e nel Mediterraneo e, quindi, l’argomento principale per la sua salvaguardia.
Il nome “Porto Vecchio” (ufficialmente Punto Franco Vecchio) può suonare in qualche modo fuorviante: all’epoca delle prime costruzioni, nella seconda metà dell’Ottocento, era anzi un esempio di massima avanguardia nell’architettura e nella tecnologia portuale. Le banchine e i magazzini erano dotati di gru, ascensori e montacarichi azionati da un complesso sistema idraulico: caldaie alimentate a carbone producevano vapore che azionava motopompe in grado di spingere acqua ad alta pressione dentro condotte che raggiungevano tutti gli angoli del porto, fino a sei chilometri di distanza, e movimentavano tutti i congegni utili al traffico portuale. Nell’era del digitale e del controllo remoto sembra uno sforzo tecnico gigantesco, quasi eccessivo, ma nell’Ottocento questa era una tecnologia diffusa praticamente in tutti i principali porti del mondo.
Quando fu costruito il Porto Vecchio, Trieste fu tra le prime città a dotarsi di questo sistema idrodinamico. Una tecnologia molto complessa e dispendiosa, che fu surclassata già a inizio Novecento dall’avvento dei motori elettrici, ma che rimase in servizio, almeno qui a Trieste, fino ai recenti anni Ottanta. Proprio grazie a questo uso prolungato, il Porto Vecchio oggi conserva un monumento industriale unico al mondo: è la Centrale Idrodinamica del 1891, recentemente restaurata e aperta al pubblico. All’interno sono ancora presenti alcune delle caldaie tipo Cornovaglia che funzionarono per quasi un secolo, fino al 1988, e le affascinanti motopompe che pressurizzavano l’acqua. Acqua che passava poi nelle due torre alte 20 metri dove due grandi pistoni mantenevano la pressione costante, prima di essere mandata attraverso la rete di distribuzione ad azionare tutte le macchine del porto.
Accanto alla Centrale Idrodinamica è stato musealizzato un altro edificio “energetico”, la Sottostazione elettrica di riconversione. Aperta nel 1913, serviva a distribuire l’elettricità alla vicina centrale e al resto del porto. Un edificio, nonostante il suo ruolo funzionale, in cui spiccano alcuni elementi decorativi come le colonne, i pavimenti e, soprattutto, gli affascinanti quadri di controllo in marmo. La visita a queste due vere e proprie capsule del tempo della tecnologia ci riporta agli anni ruggenti della rivoluzione delle macchine, quando il porto di Trieste era uno dei più in vista d’Europa. Il resto del Porto Vecchio è in lenta rinascita, con il grande Magazzino 26 unico a essere stato ristrutturato per ospitare il Museo del Mare, una raccolta di un migliaio di cimeli provenienti dalla collezione della storica compagnia di navigazione Lloyd Triestino (oggi Italia Marittima, parte della multinazionale taiwanese Evergreen). Il Magazzino 26 è destinato inoltre ad accogliere il “tesoro” oggi depositato nel tristemente famoso Magazzino 18, ovvero la massa di beni abbandonati qui dagli esuli giuliano dalmati dopo essere scappati dai territori italiani che sarebbero diventati parte della nuova Jugoslavia. Il rilancio prosegue con l’evento internazionale Capitale Europea della Scienza del 2020, che ha proprio nel Porto Vecchio il suo principale palcoscenico.La città in cui nacquero i luoghi che abbiamo raccontato era molto diversa dalla Trieste contemporanea. Era una piccola metropoli, con la stessa popolazione di oggi (all’incirca 230mila abitanti nel 1911), popolata in maggioranza da italiani ma con gruppi e minoranze che riflettevano il carattere multietnico dell’Impero Austro-Ungarico. Solo gli sloveni erano il 25% degli abitanti censiti, anche se le statistiche ufficiali dei territori italiani tendevano a gonfiare i numeri degli slavi per accentuare i conflitti etnici. Resta il fatto che la componente slava rappresentava una parte importante della popolazione, al di là della comunità autoctona anche per i tanti immigrati dai Balcani attratti dalla grande crescita industriale e commerciale della città. Oltre a questi gruppi si era insediata una folta comunità straniera di imprenditori e commercianti che contribuiva a fare di Trieste una delle poche città multietniche e multiculturali nell’Europa dei nazionalismi. Spiccava la comunità britannica, fatta non solo di uomini d’affari, ma anche di aristocratici e intellettuali, che ha lasciato un patrimonio di ville e giardini all’inglese di cui solo una parte è giunta fino ai nostri giorni.In seguito all’annessione della Venezia Giulia all’Italia, a vent’anni di regime fascista e all’immigrazione di massa di italiani provenienti da Istria, Fiume e Dalmazia, la comunità slovena di Trieste si è notevolmente ridotta rispetto a un secolo fa. È possibile trovarla salendo sul Carso, in paesi e frazioni come Prosecco (culla dell’omonimo vino) e Opicina. Una visita a quest’ultima è l’occasione per provare una delle meraviglie tecniche della Trieste asburgica, ovvero la Tranvia di Opicina. Fu attivata nel 1902 per accorciare il collegamento tra questo quartiere e il centro città, che fino ad allora avveniva attraverso il tracciato tortuoso della Ferrovia Meridionale. Era necessario quindi un sacco di tempo nonostante i cinque chilometri di distanza, ma inevitabile a causa del forte dislivello che sussiste tra partenza e capolinea, che rendeva impossibile una linea ferroviaria diretta. Finché non si pensò di attaccare un tram a una funicolare: il sistema – carri scudo vincolati a una fune che spingono in salita e frenano in discesa le vetture – è in funzione ancora oggi. Attualmente si attende la riattivazione dopo un incidente occorso nel 2016, ma è possibile comunque ammirare le storiche vetture, datate 1935, ferme all’inizio della salita e nel deposito di Opicina. Le tracce di questa Trieste in fermento economico ma anche etnico e sociale la ritroviamo anche in alcuni monumenti del suo patrimonio industriale. La parte sud della città è un buon terreno da caccia per gli archeologi industriali. Dal gasometro di Broletto, così simile ai suoi omologhi mitteleuropei, agli storici e affascinanti edifici dell’Arsenale del Lloyd Austriaco, risalenti al 1850. Oggi qui le attività navali sono ancora presenti, anche se l’epoca d’oro degli incrociatori da battaglia e dei transatlantici è molto lontana. Il caratteristico quartiere di Servola è dominato ancora oggi dalle attività della Ferriera, anche se in un futuro prossimo i colossali altiforni spariranno dalla vista dopo la chiusura della lavorazione a caldo. Se ne va così un altro simbolo della Trieste della Rivoluzione Industriale. La Ferriera di Servola, unica fabbrica italiana specializzata nella produzione di ghisa, venne fondata nel 1896 dalla Krainische Industrie-Gesellschaft (tradotto “Società Industriale della Carniola) di Lubiana. I suoi altoforni erano un biglietto da visita per chi entra in città da sud, e una forte immagine di contrasto rispetto al tessuto minuto di questo rione, noto per la produzione artigianale del pane, le osterie e le celebrazioni del Carnevale. Scendendo da Servola nel quartiere di San Sabba si giunge a uno dei monumenti più infausti del patrimonio industriale, non solo triestino. Uno stabilimento per uno scopo pacifico, la pilatura del riso, divenne teatro dei più terribili orrori. Dopo l’8 settembre, l’area del confine orientale non entrò a far parte della Repubblica Sociale Italiana, ma divenne un vero e proprio territorio del Terzo Reich con la sigla di OZAK, che voleva dire “Zona di Operazioni del Litorale Adriatico”. La Risiera di San Sabba, che aveva già perso da anni la sua funzione originaria, divenne un campo di detenzione di polizia, retto da uno dei peggiori criminali nazisti: Odilo Globočnik. Triestino di nazionalità slovena, si era “distinto” prima della guerra per essersi arricchito illegalmente sfruttando la sua posizione di Gauleiter di Vienna; rimosso da quell’incarico, finì in Polonia dove fu responsabile della costruzione di alcuni dei maggiori campi di sterminio, come Sobibór e Treblinka.Il suo ultimo incarico fu, dalla fine del 1943, quello di comandante delle SS nel Litorale Adriatico. Globočnik fece dalla risiera lo strumento della repressione partigiana, incarcerando qui migliaia di oppositori, ma non solo. Gli sventurati sospettati di complottare contro l’occupante tedeschi venivano sottoposti a torture e passati per le armi. I corpi dei condannati a morte venivano “smaltiti” nel forno crematorio: in meno di due anni, si stima che il numero dei cadaveri bruciati abbia raggiunto l’impressionante cifra di 3500 unità. La Risiera fu anche un punto di raccolta e smistamento verso i campi di concentramento e sterminio, con oltre 8000 prigionieri che passarono di qui prima di andare incontro a una fine quasi certa. Finita la guerra, anche la Risiera accolse i profughi giuliano dalmati, ma la sua memoria nefasta rimase. Anche se i nazisti in ritirata fecero saltare il forno crematorio e la ciminiera, i terribili ricordi di ciò che accadde lì dentro rimasero incancellabili per quei sopravvissuti che vi erano transitati. Per non disperdere questo monito alle generazioni future, lo Stato italiano dichiarò la Risiera di San Sabba “monumento nazionale”. Una struttura commemorativa ricorda il forno crematorio, mentre un percorso espositivo informa il visitatore sul ruolo di Trieste durante il nazifascismo: la città dove vennero proclamate le Leggi Razziali e poi la violenta persecuzione di ebrei e oppositori durante l’occupazione tedesca. Trieste è certamente una città affascinante, che trae la sua identità proprio dall’incontro e, allo stesso tempo, dal conflitto tra le diverse nazionalità che l’hanno popolata nella storia. Si ricorda troppo spesso il secondo e le sue tragiche conseguenze, ma in un determinato periodo storico i suoi abitanti hanno tratto vantaggio dal vivere su di un confine, geografico, etnico, culturale. Relegata per decenni in periferia, oggi Trieste si sta riconquistando il ruolo che le spetta nella nuova Europa non più solo occidentale. Il suo porto è diventato il primo in Italia per traffico merci e il più importante di tutto il Mediterraneo per il settore petrolifero. E, in estate, la città si riempie di nuovo di austriaci, sloveni, croati, ungheresi, slovacchi, che possono di nuovo viaggiare senza confini e ritrovare la “mitica” Trieste di cui certamente qualcuno gli ha parlato, il porto del più grande impero d’Europa.
È giunto il momento di lasciare questa bellissima città e affrontare l’ultima tappa sul confine, tra le montagne della Grande Guerra.