Davvero siamo tutti di Alzano?
di Jacopo Ibello
In queste settimane tutta Italia ha conosciuto il nome di questa piccola cittadina alle porte di Bergamo. Un posto tra tanti nella “megalopoli padana”, che fa rima con Cormano, Giussano, Rozzano, Trezzano… Uno di quei posti di cui, tendenzialmente, non si ha una buona opinione: quella desinenza fa venire in mente all’Italia “bucolica”, figlia solo del Rinascimento e della Magna Grecia, solo grigio, grigio e, qualora fosse un altro colore, sarebbe un’altra tonalità di grigio. Alzano non è altro che uno dei tanti luoghi vittima di stereotipi di un Paese che non ha mai conosciuto veramente sé stesso. E che, oggi, ne aggiunge un altro, drammatico, che probabilmente non si toglierà mai di dosso.
A “noi” della cultura industriale, invece, Alzano dice altro. Alzano è una tappa obbligata, una specie di meta di pellegrinaggio. “Ma tu ci sei stato al cementificio di Alzano?”. Quante volte quelli che amano avventurarsi tra le rovine della prima industrializzazione italiana si sono fatti tra loro questa domanda. Io ad Alzano ci sono stato due volte, e tutte e due le volte, sul tetto dell’ex Italcementi, mi sono girato a guardare la città e ho provato un po’ di invidia per i suoi abitanti, che hanno la fortuna di avere davanti questo spettacolo dell’ingegno umano. Sì, è vero, è un’opinione del tutto personale: per molti di loro quella sarà solo una fabbrica abbandonata, un ingombro, una calamita di degrado, come sempre in questi casi.
Ma sono pronto a scommettere che ci sono anche quelli che conoscono il significato di quella rovina, che vanno orgogliosi di come la loro piccola comunità sia tra quelle che possono dire “noi abbiamo fatto l’Italia”. Fatto non in senso figurato, fatto nel senso pratico, costruito. E ne comprendono anche la bellezza: quanti di loro saranno entrati per motivi più o meno segreti e saranno rimasti esterrefatti dalla bellezza di questo posto. “Ma questo è davvero un cementificio?!”. Come noi, venuti da lontano, curiosi di vedere se questo posto, fotografato dai nostri amici o dai nostri “colleghi” di forum, esistesse veramente.
L’Italcementi è un posto mistico, c’è poco da fare. Appena ci cadi dentro (forse voi sarete più atletici di me, ma io ci sono caduto) ti chiedi perché il grigio debba sempre avere per forza una connotazione negativa. Sembra di passeggiare in una cattedrale, per le dimensioni, per il silenzio, per le architetture. Un tempio del cemento in cemento. Si dice sempre che le fabbriche debbano essere luoghi funzionali, ma non è forse anche la bellezza funzionale? Probabilmente il signor Pesenti ha voluto dimostrare che cosa era in grado di fare questo cemento, a partire dalla sua fabbrica. Da qui partì poi quell’azienda che ha letteralmente messo su il Paese su cui noi abitiamo, camminiamo, guidiamo ancora oggi.
Qualcuno retoricamente dirà “siamo tutti di Alzano”, come aveva detto che eravamo tutti di Amatrice o di Sarno. Questo non è vero, perché un conto è la solidarietà, altro è conoscere davvero la tragedia. Però possiamo dire che siamo tutti di Alzano per quel tempio all’industria, che spesso mi dico essere una delle sette meraviglie dell’archeologia industriale italiana, che però non riesco mai a individuare ma so che quel cementificio ci deve stare. Alzano non è altro che uno dei tanti piccoli territori dell’industria italiana che allo specchio ha opposto il progresso. Dove i suoi operai e i suoi imprenditori hanno portato un pezzo di loro stessi nella vita quotidiana, nella scuola, nel divertimento di tutti noi. Alzano è uno dei denti della ruota che tiene la stella della Repubblica, una delle forge del lavoro alla base della nostra democrazia, per citare la nostra costituzione.
Quando entrate nel vostro palazzo, o quando scrivete su un quaderno Pigna, allora pensate che siamo tutti di Alzano.