La città-macchina

di Jacopo Ibello

“Queste case abbandonate, questo quartiere senza voci, denunciano il male gravissimo che mina l’esistenza di Carbonia. La poca gente rimasta qui ad abitare è come sopravvissuta ad un improvviso cataclisma, che in realtà non c’è stato, perché il male di cui soffre Carbonia non è né di oggi, né di ieri, ma è nato con la città.” – ( “Il carbone sbagliato”, TV7, RAI, 1969 )

Città macchina, città mineraria, città aziendale (anzi, “Company Town”, come recitano in una rara correttezza di termini i totem sparsi nei suoi quartieri): così si definisce ancora oggi Carbonia, a sottolineare la dipendenza del proprio destino da mani estranee che non siano quelle dei propri cittadini.

Come del resto tutte le città di fondazione dell’Italia fascista, nate per volontà del regime deciso a popolare aree fino ad allora malsane e desolate, con vere e proprie migrazioni di massa organizzate dalle regioni più disagiate del Regno. Città che non seguono l’andamento di un fiume o il pendio di un monte, ma vengono disegnate al tavolo dalle archistar del Duce per rispecchiare i dettami di vita del Fascismo.

Carbonia però non è solo città di fondazione ma, come già detto, è una città aziendale: è un luogo dove non comanda il sindaco eletto dai cittadini, ma l’amministratore delegato della società proprietaria dell’industria, eletto da un’assemblea di azionisti.

Industria che oltre agli stabilimenti è proprietaria delle strade, dei servizi e anche degli uffici pubblici. È proprietaria anche del Comune. La company town è un luogo dove il concetto di pubblico assume contorni singolari e la proprietà privata a volte non esiste. La casa, come tutta la città in mano all’azienda, è solo l’alloggio del lavoratore, non l’investimento che questi fa per dare un fondamento al proprio futuro e a un’eventuale famiglia. Da obiettivo e rifugio sicuro essa diventa una temuta arma di ricatto in mano al’imprenditore che può assoggettare alle proprie esigenze l’operaio ribelle, con la minaccia di dare le chiavi a qualcuno ugualmente bisognoso di lavoro ma più accondiscendente.

Carbonia però possiede un terzo fattore che la rende, tragicamente, unica. La precarietà tipica di una città aziendale, la cui vita o morte dipendono dalle sorti dell’impresa, qui è aggravata dal fatto che l’impresa sia sbagliata fin dall’inizio. Il carbone del Sulcis, scoperto a metà ‘800, è da sempre considerato “povero” e la sua estrazione non è mai decollata veramente, eccezion fatta per il periodo autarchico. Pur avendo a disposizione enormi riserve di cui a oggi ne è stato consumato appena il 1%, si è sempre trovato più conveniente importare il carbone dall’estero. Ciononostante il regime diede vita negli anni ’30 a un’imponente opera di industrializzazione e urbanizzazione. Motivo erano le sanzioni imposte all’Italia per la guerra in Etiopia che complicavano le importazioni di materie prime. Così migliaia e migliaia di persone popolarono la “landa malarica e deserta”, non solo da altre parti della Sardegna, ma anche dalla Maremma, dal Friuli, dal Polesine e dagli altri serbatoi di povertà a cui solitamente il regime attecchiva durante le sue operazioni di bonifica. Una migrazione verso un diverso tipo di coltivazioni, a 100, 200, 300 metri di profondità, dove il frutto della terra non era appannaggio dei lavoratori, ma serviva a “forgiare le armi della guerra e della pace”.



Gustavo Pulitzer-Finali e altri furono chiamati a progettare il “Comune autarchico”, la città macchina. La città a perdere. Con già alle spalle l’esperienza di Arsia, la “Carbonia istriana”, l’architetto triestino disegnò un impianto urbano in cui il centro con la piazza, la chiesa e il municipio erano in realtà, come tutta Carbonia, il corollario della Grande Miniera di Serbariu. Questa infatti doveva essere il vero centro cittadino, il punto in cui tutte le strade e la vita convergevano. Tutt’intorno si allinearono ordinatamente schiere di residenze popolari, che dall’ideale bucolico della casa ruralizzata passarono ben presto alle più pratiche abitazioni collettive, che sì tradivano l’aspetto da città-giardino ma almeno erano in grado di alloggiare il crescente numero di persone immigrate a Carbonia tra il 1938, anno della fondazione, e lo scoppio della Guerra.

Arrivarono fino a 60.000 gli abitanti durante il periodo bellico e post-bellico. Finito il conflitto, finita l’autarchia, doveva essere finita anche Carbonia. Il petrolio e la CECA resero il carbone Sulcis ancora più antieconomico di quanto non lo fosse già di suo. Mentre il resto del Paese rifioriva e le città si popolarono come mai era successo nella storia, Carbonia si trovò negli anni ’60 con gli abitanti dimezzati e il serio rischio di sparire. Da immigrati i carboniensi divennero emigranti, magari in altre miniere di carbone nel Nord Europa. Venne magistralmente raccontato in un episodio TV7 del 1969 dal titolo “Il Carbone Sbagliato”, al cui cospetto la retorica fascista di pochi anni prima crolla miseramente:

“Il dramma di una città nata per la guerra,
incapace di prosperare in tempo di pace.”
– TV7 del 1969 

La cosa che colpisce è che il reportage potrebbe essere stato girato oggi: un centro da normale cittadina di provincia, l’abbandono e la miseria nei quartieri periferici, la miniera dal destino incerto. Ancora oggi Carbonia lotta per la sopravvivenza.

 


Eppure è ancora lì, nonostante gli stessi problemi la affliggano costantemente da 50 anni. Probabilmente perché Carbonia non è destinata a morire, ma è come tante altre città un luogo con storie vecchie da raccontare e nuove ancora da creare.

La sua stessa forma per esempio: ripulita dalla retorica fascista, l’urbanistica della fondazione mostra un’indiscutibile attenzione alle esigenze dell’individuo che è clamorosamente venuta a mancare nell’epoca della ricostruzione.

È comunque riconoscibile il tentativo di alleviare (almeno teoricamente) i traumi del lavoro minerario attraverso la pianificazione urbana. Le stesse abitazioni collettive, ormai lontane dall’aspetto rurale delle case originali, furono all’epoca dotate di servizi e dotazioni inimmaginabili per la gran parte della classe lavoratrice italiana. Da quest’avanguardia moderna nasce l’idea di CIAM, itinerari dedicati all’architettura e all’urbanistica di Carbonia: totem posti in punti strategici della città raccontano la storia, i progetti, gli architetti, i quartieri e le strutture. Un vero esempio di valorizzazione culturale del patrimonio moderno che altre città italiane dovrebbero seguire, soprattutto quelle più legate al Ventennio fascista.

Da anni ormai Carbonia prova a reinventarsi per sopravvivere: diventare una città, smettere i panni della città macchina, alimentata dalla Grande Miniera. Il passo più importante è la riappropriazione dei suoi spazi, delle sue infrastrutture e del suo patrimonio residenziale, fino a qualche anno fa ancora in mano alla società mineraria.

Ciò da cui però Carbonia non può prescindere resta sempre la miniera: è colei che, nel bene e nel male, ha partorito e alimentato la città. Ora che però il carbone da lì non esce da almeno 50 anni, è venuto il momento di cambiare il tipo di rapporto: ora è la miniera che deve diventare una risorsa per Carbonia. Ancora oggi, del resto, arrivando qui si incontra prima la Grande Miniera di Serbariu, dove tutte le strade principali convergono, e poi il resto.

Dopo decenni di abbandono, nel 2009 si è completato il restauro del complesso industriale, architettonicamente uno dei più belli d’Italia, e oggi è un grande parco aperto a tutti dove trovare un museo, una galleria mineraria visitabile, un centro di ricerca e un ristorante.

Dopo quasi 70 anni il centro di Carbonia resta sempre la Grande Miniera, avanguardia di un turismo industriale che in Italia stenta a decollare in modo diffuso. Tuttavia la sua posizione fa sì che spesso la città, vero museo a cielo aperto di architettura moderna, sia tralasciata dal visitatore. Invece è importante scoprire come la miniera abbia influito sulla vita quotidiana della comunità, camminando nelle piazze e nelle strade, così ampie da sembrare di trovarsi in una città più grande, visitando le ex strutture aziendali come il Dopolavoro e la villa del direttore trasformate in luoghi di eventi e cultura.

Approfondisci tutte le Info dalle Fonti ufficiali:

  • Museo del Carbone – Grande Miniera di Serbariu: www.museodelcarbone.it
  • CIAM – Carbonia Itinerari di Architettura Moderna: Link

“Il più giovane Comune Italiano” ha già una grande storia alle spalle, raccontata nelle gallerie sotterranee e nelle sue case popolari. La Città Macchina oggi è alimentata anche dalla cultura, qualcosa che sicuramente i suoi fondatori non avrebbero voluto.