Una bellissima sfida di rigenerazione urbana per Barletta

Testo di Giuseppe Tupputi
Foto di Massimiliano Cafagna

Tra le principali sfide che la città di Barletta è oggi chiamata ad affrontare in termini urbanistici – e perciò anche politici, civili ed economici – spicca senz’altro quella legata alla rigenerazione dei grandi complessi industriali dismessi e/o abbandonati, dislocati all’interno e a ridosso del nucleo abitato della città.
In primo luogo, l’urgenza di tale sfida è dovuta alla grande scala del fenomeno considerato, che riguarda aree considerevoli se paragonate all’intera superficie costruita della città. Di fronte a questi numeri non si può pensare di agire caso per caso (come probabilmente si è fatto finora), ma bisognerebbe valutare il fenomeno all’interno dell’intero assetto urbanistico della città, per lo meno provando a costruire una strategia d’insieme, capace di ritrovare la dimensione della relazione tra questi enormi frammenti di città “in attesa”.
In questo senso, la grande quantità di suolo non edificato che circonda i complessi industriali dismessi e il grande valore di pregio paesaggistico posseduto da alcune di queste aree – si pensi all’ex Cartiera Mediterranea, immersa nel verde e affacciata sul mare – rendono questi “vuoti urbani” facilmente disponibili a trasformarsi in parchi e giardini che potrebbero ospitare al loro interno svariate funzioni (dalle residenze ai servizi collettivi, dalle attività produttive a quelle commerciali), strutturandosi secondo una strategia urbana complessiva e unitaria.
Inoltre, l’urgenza di tale sfida è dovuta al fatto che questi luoghi – tra cui l’ex Distilleria e la già citata ex Cartiera Mediterranea – rappresentano un’importante memoria storica cittadina che si sta pian piano sgretolando. Infatti, dopo essere stati tra i principali fautori dello sviluppo della nostra comunità negli anni del boom economico, i grandi complessi industriali disseminati nel nostro territorio comunale si sono trasformati, con il repentino esaurirsi del ciclo storico legato all’industrializzazione del Mezzogiorno, in un grande (sia per dimensione che per complessità) problema urbanistico; fino ad essere oggi diventati degli spazi privi di funzione, inaccessibili e inutilizzabili, in grave stato di degrado e spesso profondamente compromessi da un punto di vista ecologico.

Eppure, queste grandi industrie dismesse sono i frammenti di una memoria collettiva piuttosto recente e già quasi dimenticata; sono i resti materiali di un’attività produttiva che per anni ha dato da vivere a molte famiglie barlettane, e noi avremmo il dovere di prendercene cura, elevando queste vecchie fabbriche allo status di “archeologia industriale”, patrimonio collettivo della città di Barletta, possibile valore aggiunto per i suoi futuri sviluppi urbanistici: non minaccia, dunque, ma grande opportunità.
Assumendo questa postura, questi spazi della dismissione industriale cambierebbero di segno e dall’essere intesi come fenomeni negativi tornerebbero a mostrare gradevoli sorprese. Infatti, le fotografie di Massimiliano Cafagna mostrano luoghi affascinanti e atipici, singolari: dopo decenni di abbandono, la vegetazione spontanea è cresciuta dentro e fuori gli immensi edifici industriali, e si confronta adesso con quel che resta dell’architettura razionale e monumentale delle macchine. Questo stridente dialogo dà luogo ad un’atmosfera a volte onirica e surreale, mettendo in scena caratteri estetici inediti, poiché nati spontaneamente e naturalmente tra le pieghe dei processi storici, nel silenzio dell’abbandono. Sono perciò spazi profondamente differenti rispetto a quelli che connotano qualunque altro luogo urbano; sono spazi in cui la mescolanza della fascinazione simbolica (delle macchine) e della bellezza selvaggia (della natura) mette in scena l’esperienza del sublime; sono perciò luoghi seducenti e affascinanti in cui, come scrive Jilles Clement è possibile tornare ad “avvicinarsi alla diversità con stupore”(Clemènt, Gilles (2005), Manifesto del Terzo paesaggio, a cura di F. De Pieri, Quodlibet, p.59.).

Eppure, invece di intraprendere questa “bellissima sfida”, che potrebbe valorizzare in termini civili, estetici, ma anche economici il nostro territorio, è purtroppo doloroso constatare quanto oggi le dinamiche reali che incidono concretamente nella trasformazione della città, nelle pratiche edilizie, siano lontane anni luce da questo approccio.
A tal proposito, a Barletta, il caso più emblematico è senza dubbio quello dell’ex Cartiera Mediterranea che, dopo essere stato un centro di produzione competitivo a livelli europei che contava centinaia di dipendenti, è attualmente l’area industriale dismessa sulla quale sembrano convergere più interessi economici e che, per tale ragione, è al centro del dibattito pubblico. Costruita nel ’64 e dismessa nel ’91, situata a due passi dal mare sulla litoranea di Levante, quest’area è di proprietà di un consorzio di impresari edili che ha già espresso la richiesta di demolire gli edifici della cartiera, di cancellare ogni memoria, ogni traccia della sua esistenza, di fare tabula rasa per costruire nuovi alberghi per futuri flussi turistici che, ad oggi, sembrano però essere inesistenti e difficilmente immaginabili visto le condizioni del nostro mare e, più in generale, del nostro patrimonio territoriale-paesaggistico, storico e culturale.Di fronte a tale anacronistica richiesta, il Comune si è rifiutato di concedere il permesso a costruire in un’area che risulta essere qualificata come zona omogenea D1 (dove sono previsti solo insediamenti industriali). Quindi, i suddetti impresari hanno presentato un ricorso appellandosi al cosiddetto “decreto sblocca Italia”, ricorso che è stato ancora respinto dal Tar Puglia e dal Consiglio di Stato.
Ora è chiaro che, da un lato, vi sono dei signori che hanno ben intuito le possibilità di speculare sull’area in questione, costruendo e vendendo alberghi (anonimi) a due passi dal mare (inquinato), che a prescindere o no dal loro funzionamento, dalla loro giusta integrazione nel paesaggio urbano e naturale, a prescindere dalle memorie storiche e dai sentimentalismi vari gli gioverebbero molti quattrini (forse: casomai diventando la location perfetta per girare un cine-panettone all’italiana).
Dall’altro lato, vi è un’amministrazione che fatica a costruire una idea propositiva per queste aree, e che ci ha fatto perdere le tracce di quel famoso PUG (Piano Urbanistico Generale) che dovrebbe sostituire il nostro ormai obsoleto PRG (risalente addirittura al 1971 e in parte adeguato nel 2003). Siamo dunque indietro di circa cinquant’anni da ambo i lati.
In particolare, da un lato, più che la pochezza etica della proposta presentata dagli impresari edili, ciò che più ci stupisce è la debolezza delle strategie imprenditoriali ad essa soggiacenti, ancora legate a vecchi ed obsoleti paradigmi economici, ormai quasi del tutto inefficienti e inefficaci. Pare che a Barletta, ancora non ci si sia accorti che investire sul mattone non è più una strategia efficace per nessuno, e che invece tale pratica corrompe l’integrità dei luoghi, impoverisce il loro valore estetico, sociale ed economico e genera pochi profitti, pochi spiccioli per pochi. Dispiace anche constatare, d’altro canto, la debolezza degli strumenti e dei metodi con cui, in un’epoca come la nostra, ricca al contempo di insidie e di opportunità, ci si proponga di difendere, amministrare e mettere in valore le potenzialità urbanistiche della città.Eppure, in quanto giovani professionisti e cittadini, abbiamo il dovere di restare fiduciosi, e di ribadire con forza che si può lavorare insieme in modo virtuoso, ricordando a tutti che, oggi, l’unico possibile surplus sul quale ipotizzare i futuri modelli di crescita del Comune è l’innovazione culturale, sociale, ambientale, tecnologica. Solo su questa base, che è rigorosamente collettiva e condivisa, sarà possibile ri-strutturare una nuova identità per i nostri territori, ricchi di inestimabili patrimoni artistici, storici e ambientali. Solo in questo modo, potremo reinventarci e produrre innovazione a partire dalla reinterpretazione delle nostre tradizioni.
Oggi esiste la possibilità di avvalersi di consulenze scientifiche sviluppate in compartecipazione con enti istituzionali e territoriali, esiste la possibilità di costruire tavoli tecnici e tavoli di compartecipazione con i cittadini per istituire delle buone pratiche di trasformazione del territorio, all’interno di processi virtuosi che potrebbero anche ambire ad ottenere, viste le politiche europee degli ultimi anni, cospicui finanziamenti e/o agevolazioni.
Oggi, infatti, esistono i sussidi europei, ed esiste persino la possibilità di promuovere e sostenere l’attività imprenditoriale tesa alla trasformazione di questi luoghi, a patto che quest’ultima sia effettuata all’interno di tali “processi virtuosi” e assumendo tali “buone pratiche” definite dal Comune, dai tecnici e dalla cittadinanza stessa.
Tra l’altro, oggi esistono tanti esempi concreti che testimoniano l’effettiva validità di questi modelli di sviluppo e di trasformazione del patrimonio pubblico. Si pensi al villaggio industriale di Crespi d’Adda, rigenerato secondo tali modelli e divenuto Patrimonio UNESCO, al nuovo Auditorium di Renzo Piano a Parma realizzato all’interno dell’area ex Eridania (fabbrica di zucchero); alle ex Officine Bosco a Terni, trasformate in Centro Multimediale; all’Arsenale di Venezia ora divenuto sede universitaria, con centro di ricerca del CNR, musei-laboratori e anche abitazioni. Sono tutti contenitori culturali aperti a molteplici usi, che sono al contempo culturalmente ed artisticamente innovativi, produttivi e socialmente utili: luoghi per lavorare, vivere, studiare, passare il tempo libero, incontrarsi, luoghi per sviluppare nuove forme di linguaggio e di comunicazione interpersonale, nuove forme di produttività sociale, culturale ed economica.
Oggi, dunque, esistono queste possibilità di sviluppo per il nostro territorio e per la nostra stessa società civile. Così si placherebbero, in fondo, anche tanti conflitti, e vincerebbero in molti: l’amministrazione, gli imprenditori, i cittadini, la nostra comunità tutta, che dovrebbe aspirare ad essere coesa, armonica ed organica, costruendo consapevolmente e di comune accordo i suoi scopi, e dando forma concreta alle proprie possibilità e ai propri bisogni. Bisognerebbe fare questo insieme, come una “multitudo” di soggetti attivi, tutti differenti, coinvolti e ben organizzati.
Staremo a vedere.