Civiltà umanistica e civiltà tecnologica
di Mattia Zanotti
Nell’articolo Officine infernali si è detto che una delle prime evidenze con cui ci si scontra nel rileggere la letteratura italiana d’ispirazione industriale è che la fabbrica viene spesso raccontata come un luogo funesto e infernale, in cui esiste un conflitto insanabile tra l’uomo e le macchine. Indagare e cercare di comprendere l’interpretazione degenerante dell’industria e delle officine, allora, diventa un’operazione di fondamentale importanza per addentrarsi ancora di più in questo genere letterario, che esprime in ogni occasione di lettura e analisi la sua natura politecnica e il suo muoversi sul confine di altre discipline.
Una simile interpretazione della fabbrica potrebbe senz’altro derivare dall’antico sospetto della civiltà umanistica nei confronti della civiltà tecnologica, di cui l’industria è applicazione diretta. Nella sua opera Le due culture (1964), infatti, Charles Percy Snow denuncia lo sguardo refrattario e sospettoso del mondo umanistico verso i saperi scientifici e tecnologici. Sin dagli albori della cultura occidentale, il mondo della lettere ha guardato all’innovazione tecnologica posando su di essa uno sguardo incuriosito e indagatore, certo, ma soprattutto allarmato e intimorito.
Un primo esempio può essere addirittura ravvisato nella creazione e nella narrazione del mito di Epimeteo e Prometeo. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di distribuire in modo opportuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione ma, nell’ottemperare al suo incarico, aveva consumato senza rendersene conto tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione, lasciando il genere umano senza mezzi. A questo punto, Prometeo, incaricato di controllare la distribuzione, non sapendo di quale mezzo di salvezza fornire l’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica con il fuoco – senza il quale la prima non si poteva ottenere – e li donò all’uomo. Prometeo, in buona sostanza, offre agli uomini la tecnica e la tecnologia, e questo apre al dramma che si concretizza con la severa punizione da parte di Zeus.

La punizione di Prometeo (1878), di Christian Griepenkerl.
La tecnica è foriera di sventura anche in un altro racconto mitologico, questa volta narrato da Ovidio. L’autore latino nella sua Ars amandi, nel libro II, racconta di Dedalo e Icaro e della loro fuga dal labirinto in cui erano stati rinchiusi da Minosse, il quale aveva impedito loro ogni via di fuga.
«Dispone in ordine le penne come le ali degli uccelli,
e intreccia con fili di lino l’opera lieve,
le sigilla nel fondo con cera liquefatta sul fuoco,
ed ecco compiuta l’opera della nuova scienza»,
scrive Ovidio ai vv. 45-48. Attraverso l’opera della scienza nuova, creata dall’ingegno di Dedalo reso acuto dalla costrizione della prigionia, l’uomo ha sfidato le sue facoltà e ha provato a superare i propri limiti, andando incontro a una sorte avversa.
Come spiega Davide Profumo nel suo intervento intitolato Le macchine volanti, un discorso molto simile – con straordinari richiami testuali – lo si ritroverà in Inf. XXVI, dove Dante racconta lo sfortunato tentativo di Ulisse di oltrepassare le Colonne d’Ercole. Il poeta, nei versi 100-102 e 124-125, scrive:
«ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
[…] e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo».
All’inizio di questi versi «Dante svaluta immediatamente l’uso della tecnologia», dice Profumo: la barca è «sol […] un legno» grazie al quale Ulisse può intraprendere l’impresa che ha immaginato, e questa è la cosa più importante. Con quel pezzo di legno, infatti, Ulisse e i suoi compagni sfidano Dio, intraprendendo un «folle volo». Un aggettivo che, in Dante, significa ‘superbo’, oltre i limiti consentiti all’essere umano e per questo ostacolato e punito da Dio.

Paesaggio con la sepoltura di Dedalo e Icaro (1606-1607), di Carlo Saraceni.
Quella sopra, naturalmente, è una ricognizione superficiale e cursoria, svolta per rapidi ma emblematici assaggi, di come la letteratura e gli scrittori di epoche e geografie diverse abbiano tenuto a distanza di sicurezza la tecnica e la tecnologia. Relativamente alla letteratura italiana, Giuseppe Lupo, nel suo Orfeo tra le macchine, evidenzia come sia «fuor di dubbio che in Italia la tradizione giochi a sfavore delle macchine e la tendenza all’inclusività (riconoscibile già a partire dai modelli culturali di Leonardo da Vinci e Galileo Galilei) sia una componente minoritaria rispetto all’altra linea, […] dove i letterati si mostrano intimiditi dalle invenzioni».
Per quanto riguarda la questione che stiamo considerando qui, quella inerente alla fabbrica e alla sua interpretazione negativa da parte della letteratura industriale, il discorso svolto finora è senz’altro valido e necessario, ma rischierebbe di peccare di parzialità se le motivazioni venissero individuate solamente nello sguardo refrattario della cultura umanistica nei confronti della civiltà tecnologica; nello sguardo sospettoso dovuto all’ignoranza e alla lontananza dal mondo delle macchine e dei torni, delle officine e delle industrie. Per sviluppare un discorso più articolato e completo, infatti, è opportuno tenere in considerazione altri diversi elementi e pregiudizi che con la nascita e l’affermazione dell’industria possono aver portato gli intellettuali «ad assimilare la fabbrica a luogo di contrapposizioni, a fulcro dello scontro tra la classe operaia e imprenditori, tra solidarietà e profitto, tra produzione e sfruttamento», per dirla con le parole di Giuseppe Lupo. In questo senso, l’argomento si muove verso fenomeni e ragionamenti a prima vista lontani dai confini della letteratura, ma che gli autori e le opere letterarie hanno assimilato e riferito. Si sta parlando dei fenomeni di lotta politica e ideologica, di protesta sociale e sindacale che hanno contraddistinto e segnato le varie epoche della fabbrica e dell’industria in Italia. Naturalmente, non tutta la letteratura industriale va letta in prospettiva politica o ideologica ma è pur vero che, come sostiene Lupo, «gran parte dei testi esprime più d’una parentela con le questioni emerse dallo scontro tra i partiti di area marxista e le formazioni di ispirazione cattolica; un dibattito certo fondamentale per le sorti del paese, che nell’immediato dopoguerra ha visto fronteggiarsi, almeno a livello teorico, i modelli del capitalismo e del socialismo reale». I romanzi Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini, Tuta blu (1978) di Tommaso Di Ciaula e Sirena operaia (2000) di Alberto Bellocchio sono significativi esempi di questo tipo di letteratura. Allo stesso tempo, inoltre, rappresentano ancora una volta una preziosa testimonianza del fatto che l’affermazione della nuova e moderna economia delle industrie e delle aziende abbia creato conflitti e lacerazioni nel modo di pensare e vivere della popolazione italiana, modificando la concezione del lavoro, la geografia dei luoghi e gli equilibri sociali tra i ceti urbani. Come già scritto in Letteratura industriale, industria e tecnica hanno portato soprattutto una trasformazione antropologica: usando le parole di Giovanuzzi, «hanno alterato in maniera radicale il modo di definirsi dell’uomo rispetto alla realtà, creando un mondo di oggetti, un linguaggio e paradigmi ermeneutici totalmente nuovi» che la letteratura ha provato a leggere e interpretare, trovandosi spesso disorientata, spaesata.

Operai in fabbrica, da www.zeroventiquattro.it
BIBLIOGRAFIA
S. GIOVANUZZI, «Industria e letteratura». Vittorini, «Il menabò» e oltre: metamorfosi di un dibattito, in «Levia Gravia», XIV, 2012.
G. LUPO, Orfeo tra le macchine, in BIGATTI – LUPO, Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Roma 2014.
Immagine di copertina: Metropolis, di Fritz Lang (1927)