di Mattia Zanotti
Nell’ultima uscita di questa rubrica, intitolata Le due culture, abbiamo avuto modo di vedere come il sapere umanistico e il sapere scientifico siano stati tradizionalmente distanti tra loro. Nello stesso articolo abbiamo avuto modo di notare come, proprio per questo sguardo refrattario della cultura umanistica e anche per rivendicazioni politiche e ideologiche, una situazione simile fosse quella che stava vivendo la fabbrica, la quale in quegli anni era applicazione diretta della tecnica e della tecnologia. Il mondo delle industrie, infatti, è rimasto a lungo ai margini degli orizzonti letterari, osservato con sospetto o con superficiale interesse, se non perfino con sguardo ostile.
Tuttavia, nel secondo dopoguerra, anche grazie all’euforia e all’entusiasmo per il miracolo economico di quegli anni, la fabbrica è diventata un luogo che poeti e scrittori hanno potuto conoscere in maniera diretta, pur con tutte le difficoltà interpretative che impone il mondo delle officine e con la limitatezza di visione e di comprensione che di questo mondo può avere un estraneo: «le fabbriche sono un mondo chiuso», abbiamo detto già detto altrove e diremo più avanti, citando Ottiero Ottieri.
A ogni modo, in alcuni casi, questa conoscenza diretta è stata un’esperienza occasionale patrocinata da riviste aziendali come «Civiltà delle macchine» e «Pirelli» oppure «Notizie Olivetti» e «Rivista Italsider» con l’intento di risaltare e valorizzare la propria immagine. In altri casi, invece, si è trattato di un tentativo di avviare e dare spazio a un dialogo tra il sapere umanistico e il sapere tecnologico, solitamente lontani tra loro.
All’interno di questi confini assume particolare rilievo l’idea – promossa da Leonardo Sinisgalli, fondatore e direttore di «Civiltà delle macchine» – di inviare scrittori e poeti dentro le fabbriche: nascono le visite in fabbrica, incursioni di poeti e artisti, scrittori e intellettuali all’interno delle geografie e dei costumi di una fabbrica viva e operante.
Il modello della visita in fabbrica, pur non rappresentando un vero e proprio genere letterario, ha avuto negli anni una discreta fortuna e, soprattutto, ha rappresentato per gli scrittori e gli artisti, per il mondo umanistico in generale, un’occasione di confronto con l’industria e l’officina, con il regno della tecnica. Quale potrebbe essere un bilancio realistico e scevro da preconcetti delle visite in fabbrica? È difficile dirlo, anche se si ha come la sensazione che queste visite abbiano rappresentato una serie di occasioni perse, mancate più o meno consapevolmente. Anche quando hanno avuto la possibilità di visitare le fabbriche, infatti, gli scrittori hanno spesso dichiarato la loro incompetenza ed estraneità oppure ne sono rimasti incantati, ma da un po’ di vista ludico, di stupore. In altri casi, invece, si percepisce una volontà di racconto, anche sincera e sofferta, ma è una volontà dalla visuale stretta e dal respiro corto. Gli scrittori, infatti, non riescono a restituire una rielaborazione della fabbrica: spesso e volentieri ne dipingono a livello documentario i tratti e i contorni oppure li snaturano completamente.
Una prima visita da citare è quella di Giorgio Caproni, il quale, invitato nel 1953 a trascorrere una giornata nei cantieri dell’Ansaldo di Sestri Ponente, dichiarerà di sentirsi spaesato all’interno dell’edificio «d’aria e ferrame ch’è giustappunto il cantiere navale Ansaldo» e munito di un dizionario «saccente e frettoloso», tanto «sbagliato» da decidere, alla fine della giornata, di buttarlo a mare:

Cantiere Navale Ansaldo (1958), Fondazione Ansaldo (da www.imprese.san.beniculturali.it)
«con perfetta precisione so che, uscito da quella mia fruttuosissima visita, un gesto seppi alfine compierlo degno, come direbbe ogni buon genovese, d’un vero uomo: quello di buttare a mare, definitivamente, il dizionario che avevo portato con me, anche se tale gesto comportava peraltro la logica conseguenza – che ora sconto in pieno facendo punto – di ricondurre con me in Roma un’ignoranza (intorno a ciò che è una nave e un cantiere) mille volte maggiore, ma forse d’altro genere, rispetto a quella con la quale, baldanzosamente ero partito».
Se si può ammettere e in un certo senso comprendere il fatto che Caproni fosse sprovvisto di un dizionario adeguato ad affrontare la visita dei cantieri dell’Ansaldo, non si può invece dire la stessa cosa di Carlo Emilio Gadda, in visita alla centrale di Cornigliano sempre nel 1953. Una visita che per Gadda, ingegnere, significava riavvicinarsi alle proprie origini e varcare nuovamente le soglie del regno della tecnologia e della matematica. Di questo regno, eppure, Gadda non riesce a restituirci una visione profonda ed elaborata, vibrante del confronto tra le due culture, anzi: ce ne offre una descrizione iper-tecnica e documentaristica, quasi nevrotica, con poche, leggere sfumature letterarie.
Un’altra visita è quella di Giovanni Comisso a Cortemaggiore, intitolata Un’acropoli di acciaio nella pianura. Lo scrittore resta incantato dal silenzio e dalle forme, dall’architettura:
«il silenzio dei cimiteri se si guarda quel muro che gira attorno, ma come si cammina tra le torri, tra i grandi depositi che comprimono il gas, tra i pinnacoli, i minareti argentati e scintillanti quel silenzio ricorda altri silenzi: quello che si respira tra le alte cime dei monti o nelle sublimi acropoli. […] Un’architettura precisa, razionale per eccellenza, voluta da leggi scientifiche […] non si mentisce se sembra ritrovarsi sull’acropoli di Atene accanto alle colonne del Partenone».
Forse è la natura stessa della fabbrica a imporre che per raccontarla, alla fine, si finisca poi per dire altro. Probabilmente è necessario che si sfruttino immagini lontane, mitiche e storiche o religiose; oppure, ancora, che si usino vocabolari diversi, magari «saccenti e frettolosi» come quello di cui era in possesso, per sua stessa ammissione, Giorgio Caproni.
Questa necessità ce la suggerisce anche Ottiero Ottieri, il quale vorrebbe provare a offrire un racconto complesso della fabbrica e dell’azienda, un racconto che nasca dall’assimilazione e non dall’inchiesta. Ottieri, infatti, in visita all’acciaieria di Dalmine, aveva manifestato il desiderio e la volontà di scrivere un romanzo aziendale puro, magari tutto ambientato in quelle zone. A Dalmine aveva parlato con gli operai, aveva visto il «fuoco rosso e le macchine nere» dell’inferno dei reparti e, allo stesso modo, aveva visto i grandi tavoli lucidi degli uffici dirigenziali. Eppure, è lo stesso autore a pensare che sia impossibile scrivere un romanzo aziendale:

Dalmine. Acciaieria. Affinazione ai forni Martin-Siemens (1950), di Vincenzo Aragozzini, Fondazione Dalmine (da www.censimento.fotografia.italia.it)
«Dovrei abitarci un anno. Come? Mi caccerebbero via. Il lavoro non ammette zone morte contemplative e ogni stabilimento è una fortezza piena di segreti».
BIBLIOGRAFIA
L’anima meccanica. Le “visite in fabbrica” in «Civiltà delle macchine» (1953-57), Avagliano, Roma 2008.
G. COMISSO, Un’acropoli di acciaio sulla pianura, «Il Gatto Selvatico», settembre 1955.
O. OTTIERI, La linea gotica. Taccuino 1948-1958, Guanda, Parma 2012.
G. LUPO, Orfeo tra le macchine, in BIGATTI – LUPO, Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Roma 2014.
Immagine di copertina: Foto del IV Altoforno dell’Italsider di Bagnoli, Fondo Lavoratori Ilva-Italsider (da www.novecento.org)