di Mattia Zanotti

Parlando di letteratura industriale, citando il saggio Orfeo tra le macchine di Giuseppe Lupo, si fa riferimento «a un insieme ben preciso di opere omogenee per area tematica, venute alla luce negli anni in cui l’Italia abbandona l’economia agricola e artigianale per compiere definitivamente il salto verso l’industrializzazione». Si tratta, insomma, di quelle opere narrative e poetiche che raccontano degli operai, delle fabbriche, della catena di montaggio e delle sirene; ma anche degli imprenditori, degli uffici, dei dirigenti e degli intellettuali in seno alle aziende.
Da un punto di vista cronologico, il corpo centrale di questo filone letterario inizia con Tre operai (1934) di Carlo Bernari e si conclude con La dismissione (2002) di Ermanno Rea, due romanzi intrecciati alle sorti degli stabilimenti dell’Ilva di Bagnoli che danno l’impressione di aprire e chiudere un unico e importante capitolo storico, economico e letterario non soltanto meridionale ma anche italiano. La letteratura industriale vera e propria, dunque, prende forma e si articola negli anni in cui l’affermazione della nuova e moderna economia delle industrie e delle aziende, con la propria flessibilità e forza, crea conflitti e lacerazioni nel modo di pensare e vivere della popolazione italiana. Cambiano la fisionomia delle città e delle campagne, la concezione e la realizzazione del lavoro, gli equilibri sociali tra i ceti urbani. Avviene, soprattutto, una trasformazione antropologica; industria e tecnica, utilizzando le parole di Giovanuzzi, «hanno alterato in maniera radicale il modo di definirsi dell’uomo rispetto alla realtà, creando un mondo di oggetti, un linguaggio e paradigmi ermeneutici totalmente nuovi: ciò che fatalmente pone anche alla letteratura un problema di linguaggio».
È senz’altro vero, infatti, che questo nuovo tipo di scrittura ha sin da subito messo in evidenza le difficoltà degli scrittori impegnati ad occuparsene, imponendo dunque alcune necessarie considerazioni a proposito delle capacità espressive, delle possibili motivazioni e quindi delle finalità che appartenevano agli autori che intendessero parlare di fabbriche e operai. Come sostiene Giuseppe Lupo, chiedersi quali motivazioni abbiano spinto gli scrittori a trattare di fabbriche e aziende e con quale approccio vi si siano accostati, appunto, induce a domandarsi se le opere d’ispirazione industriale abbiano avuto solo valore di testimonianza o anche di discorso letterario.
In diversi circostanze, infatti, la produzione che è nata dall’interesse per l’industria – sia nel caso degli operai-scrittori che in quello degli intellettuali engagé – è stata una produzione vibrante d’attualità, anche sofferta, ma dal respiro corto e dalla visuale stretta; una produzione che testimoniava senza interpretare. Dello stesso avviso era Elio Vittorini, il quale in Industria e letteratura comparso sul «menabò n. 4» (1961) s’interrogava sul ritardo del letterato nei confronti dell’industria, troppo spesso considerata dagli scrittori «un semplice settore nuovo d’una più vasta realtà già risaputa e non un nuovo grado, un nuovo livello dell’insieme della realtà umana». Con ciò si ottiene una rappresentazione naturalistica e descrittiva di un’industria astrattamente intesa, surrogato di una natura ugualmente idealizzata; rappresentazione che quasi mai è in grado di individuare i processi e i mutamenti antropologici prodotti dalla modernizzazione in corso.
La modernità ha portato Muse nuove e diverse, facendo sì che la letteratura d’ispirazione industriale dovesse diventare, giocoforza, una letteratura frammista, politecnica. Per Vittorini, insomma, una letteratura che si vuole dire industriale deve allargare l’orizzonte delle proprie vedute. Deve farlo in profondità: «lo scrittore tratti o no della vita di fabbrica, sarà a livello industriale solo nella misura in cui il suo sguardo e il suo giudizio si siano compenetrati di questa verità e delle istanze (istanza di appropriazione, istanze di trasformazione ulteriore) ch’essa contiene». Non basta, in sostanza, fare una letteratura delle fabbriche e del capitalismo ma è necessario fare una letteratura del tempo delle fabbriche e del capitalismo, senza tuttavia cadere nell’irrealismo o in letture politico-ideologiche. Ciò deve essere fatto per non raccontare da un’unica prospettiva le macchine e i torni, le fatiche e i sacrifici degli operai, i dissidi e le questioni etiche degli intellettuali assunti nelle aziende. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di non cogliere il fenomeno industriale e capitalistico da una prospettiva più complessa e ampia, che ne consideri, insieme alle fatiche e alle deformazioni, anche i benefici.

Bibliografia di riferimento
E. VITTORINI, Industria e letteratura, in «Menabò», 4, 1961.
S. GIOVANUZZI, «Industria e letteratura». Vittorini, «Il menabò» e oltre: metamorfosi di un dibattito, in «Levia Gravia», XIV, 2012.
G. LUPO, Orfeo tra le macchine, in BIGATTI – LUPO, Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Roma 2014.

Foto di copertina: Operai dell’Italsider di Bagnoli, da www.novecento.org