L'epica dell'industria
di Jacopo Ibello
Se studi Geografia all’università una delle prime cose che impari è che i nomi dei luoghi sono perlopiù casuali. Studi e ricerche sulla toponomastica forniscono spesso solo ipotesi sul perché un fiume, un monte o una città abbiano un determinato nome. Per secoli però si è creduto il contrario, cioè che i nomi non solo di luoghi, ma anche di gran parte di animali, oggetti ed elementi naturali avessero un’origine precisa. Una delle conseguenze di questa convinzione è stata che per spiegare l’origine di un nome gli uomini hanno inventato leggende molto affascinanti.
Una di queste racconta di un guerriero ferito dopo una battaglia avvenuta non lontano dal Reno, che nel tentativo di ritornare al fiume venne ritrovato privo di sensi nei pressi di un mulino. La figlia del mugnaio lo accolse e lo sposò, e lo stesso fecero altre donne dei dintorni con altrettanti soldati. Le nuove famiglie stabilirono tutte le loro case intorno al mulino, formando il villaggio dal nome Mühl-Hausen.
Non sapremo mai se la romantica vicenda del soldato ferito sia un mito oppure una storia, quello che sappiamo oggi è che Mülhausen (o, come la chiamiamo da un paio di secoli, Mulhouse) è effettivamente cresciuta come una città intorno a dei mulini. La presenza di corsi d’acqua, la posizione strategica vicino al Reno, nel pieno della Banana Blu, favorì sicuramente nel Medioevo la fondazione di numerosi opifici idraulici per la produzione di farina piuttosto che di tessuti. Mulhouse si affermò come una delle città più ricche e ambiziose nel Sacro Romano Impero, cosa che la rendeva oggetto di contesa da parte di Stati e famiglie nobili. A questo i suoi cittadini opposero una fiera aspirazione all’indipendenza, culminata nell’adesione alla Confederazione svizzera come repubblica autonoma, che durò dal Rinascimento fino alle Guerre napoleoniche. Nella successiva epoca dei nazionalismi la posizione di confine tra Francia e Germania la mise al centro dei conflitti tra i due Paesi che marcarono la storia d’Europa tra Ottocento e Novecento.
Mulhouse è in effetti ancora oggi una città a metà strada. Alla lingua ufficiale, il francese, si affianca il dialetto alsaziano, di evidente origine germanica. Stessa origine per l’architettura di molti edifici storici, che culmina nella più alta chiesa protestante di Francia, Santo Stefano, che con i suoi quasi cento metri non subiva il timore delle decine di ciminiere che le facevano compagnia fino a non molti anni fa. Nel centro le strade riportano spesso i doppi nomi, mentre cognomi e toponimi hanno una chiara assonanza tedesca. Una “confusione” che oggi la cittadina rivendica orgogliosamente come parte della propria identità, ma che in passato ha creato anche qualche problema ai suoi abitanti, visti come nemici in casa. Lo imparò a proprie spese il cittadino di Mulhouse più famoso (suo malgrado), quel Alfred Dreyfus ingiustamente accusato di spionaggio per i tedeschi ma rimasto in realtà vittima, in quanto ebreo, del nascente antisemitismo che aveva nella Francia uno dei suoi focolai più accesi.
Crisi, conflitti e confusioni di identità non hanno impedito però ai suoi abitanti di creare, ruota dopo ruota è il caso di dire, una delle più operose comunità d’Europa. Sfruttando a proprio favore la posizione di incontro tra diverse nazioni, i mulini divennero fabbriche, il villaggio città, gli artigiani operai e, in qualche caso, imprenditori. I soprannomi sono sempre gli stessi: “la città dalle cento ciminiere”, l’immancabile “Manchester” di qualche posto (la Francia in questo caso, ça va sans dire), ci delineano un tratto chiaro di cosa rappresentasse Mulhouse in quell’epoca pionieristica che chiamiamo Rivoluzione Industriale. La cittadina alsaziana mostra inequivocabilmente come la “rivoluzione” fu piuttosto un’evoluzione di un antico distretto produttivo, in cui le nuove tecnologie incontravano un saper fare antico secoli.
C’era un solo prodotto che nell’Ottocento qualificava una città come “Manchester”: il tessuto. E nel tessile Mulhouse vide l’occasione per trasformarsi da cittadina murata di artigiani a città all’avanguardia in grado di trainare un’intera nazione nel progresso industriale. Quando la Francia bandì a fine Seicento la produzione di tele a stampa indiana, tre giovani dell’allora ancora svizzera Mülhausen avviarono nel 1746 una manifattura di indiennes che venivano contrabbandate nel vicino regno. I tre soci si separarono dieci anni dopo: Jean-Henri Dollfus, che in questo gruppo rappresentava il talento artistico, stabilì lungo un torrente a Dornach, allora villaggio oggi quartiere di Mulhouse, quella che nel 1800 divenne tramite l’unione in matrimonio delle famiglie Dollfus e Mieg la DMC (Dollfus, Mieg et Compagnie), uno dei colossi dell’industria tessile europea fino alla seconda metà del XX secolo.Colosso forse è una parola spesso abusata, ma in questo caso possiamo rendercene conto di persona. È ancora lì, semi-abbandonata, decadente ma non in rovina, la grande fabbrica che per decenni ha portato il savoir-faire artistico e tecnico di questa comunità in giro per il mondo. La sua architettura orgogliosa celebra il modello di sviluppo di una cittadina che cercò costantemente l’equilibrio tra un capitale fermamente nelle mani di un gruppo di ricche famiglie protestanti e un proletariato operaio organizzato e combattivo. Le chiavi di questo delicato equilibrio erano la formazione, attraverso scuole professionali, e l’assistenza, attraverso organizzazioni volte a migliorare le condizioni sociali, infrastrutturali e culturali della classe lavoratrice.Passeggiando tra i viali deserti della DMC verrebbe da pensare che quella ricerca di un equilibrio sia stata vana, ma giudicare con gli occhi contemporanei sarebbe scorretto. La città è stata effettivamente all’avanguardia, non solo nel progresso tecnico e nel capitalismo industriale, ma anche nella trasformazione del profitto delle imprese in benessere sociale. Prima di volgere le spalle a questa “fortezza del tessuto”, non possiamo non notare che, in forma estremamente ridotta, la DMC è ancora in attività. Sopravvissuta a fallimenti e cambi di società, l’azienda continua a operare come produttore di filati e realizza, a quanto si legge dal sito, il 70% del suo giro d’affari nello storico stabilimento di Mulhouse.Usciamo dalla DMC ma in realtà seguiamo la scia di ciò che iniziò con quei tre giovani un po’ commercianti, un po’ artisti, un po’ contrabbandieri. A Mulhouse tutto è collegato, ma soprattutto è tutto perfettamente leggibile. Le fabbriche sono ancora lì, perlomeno gli edifici, e lo sviluppo sociale e culturale è figlio della vocazione industriale. Quell’avventura di fine Settecento diede l’avvio in primo luogo a un tessuto produttivo legato al tessile ma che seppe anche evolversi e imporsi in altri settori. L’industria chimica, per esempio, nata per produrre le tinture per i tessuti, oppure quella meccanica, che dai primi telai in ghisa passò presto alle locomotive e altri manufatti di elevato contenuto tecnologico. I cugini André e Nicolas Koechlin erano discendenti di uno dei tre soci del contrabbando di indienne, Samuel Koechlin. André era anche nipote di Jean-Henri Dollfus e direttore degli stabilimenti DMC. I due sono però ricordati per il loro contributo a un’altra gloria dell’industria francese: la ferrovia. Nel 1826 André aprì una fonderia per la costruzione, tra gli altri, di locomotive, che tredici anni dopo vennero scelte da Nicolas per prestare servizio sulla ferrovia da lui realizzata, tra le prime in Francia. Questi stabilimenti meccanici furono all’origine dell’attuale Alstom, il secondo gruppo mondiale nella produzione di treni e locomotive. Come la DMC, li possiamo ammirare ancora oggi in tutta la loro grandezza ed estensione. Una piccola parte è stata trasformata in un nuovo quartiere, denominato appunto La Fonderie, dove sono insediate soprattutto università. In quei turbolenti primi decenni dell’Ottocento la popolazione crebbe forsennatamente e la pittoresca cittadina di origine medievale si dimostrò inadeguata nell’accogliere migliaia di nuovi abitanti con le rispettive famiglie, accorsi qui alla ricerca di un avvenire migliore tra il fracasso dei telai e le colate roventi di ghisa. Senza un’organizzazione statale che fosse ancora in grado di concepire una pur minima idea di ciò che oggi chiamiamo welfare, toccò agli industriali provvedere al benessere sociale dei propri dipendenti, pena una scarsa produttività dovuta anche a scioperi e agitazioni che non tardarono a diventare violente. Jean Dollfus, direttore della DMC e futuro sindaco di Mulhouse, decise a metà secolo di porre la propria città all’avanguardia di quel movimento noto come “paternalismo industriale”: fondò insieme ad altri imprenditori la SOMCO (Société mulhousienne des cités ouvrières), una società che aveva il compito di realizzare abitazioni a prezzi calmierati per gli operai. Il frutto di questo progetto fu un grande quartiere, la Cité ouvrière, il cui fulcro è un tipo di casa con giardino riprodotto più volte su un reticolo ortogonale di strade, proprio come se uscisse in serie da una fabbrica. Il carré mulhousienne o “Casa di Mulhouse” divenne un modello per decine di progetti simili in tutta Europa e venne pluripremiato alle esposizioni universali. Come le fabbriche sopra menzionate, anche la Cité ouvrière è ancora al suo posto e la possiamo esplorare, liberamente o in visita guidata.
Dall’industria passava l’assistenza così come la cultura. Il patronato industriale stabilì nel 1826 la Società Industriale di Mulhouse (SIM), un’associazione di studiosi col compito di diffondere i valori dell’arte, della scienza e del lavoro tra la cittadinanza. Grazie a questa istituzione la piccola città alsaziana iniziò a dotarsi di musei dedicati all’industria e alla tecnica, fino ad arrivare a essere oggi uno dei luoghi al mondo con la più alta concentrazione di questo tipo di istituzioni. Tutto iniziò già nel 1857 con l’apertura del Museo del disegno industriale, divenuto dopo un secolo il Museo della stampa su tessuto (Musée de l’Impression sur Etoffes): qui si celebra l’arte che fece decollare Mulhouse come centro manifatturiero già nel Settecento, mettendo in mostra gli strumenti da disegno e le macchine da stampa, così come tessuti stampati provenienti da tutto il mondo, tra cui spiccano le celebri indiennes.
La SIM partorì negli stessi anni anche il Museo delle Belle Arti e il Giardino botanico e zoologico, a marcare l’obiettivo di elevazione culturale della classe operaia e della cittadinanza in genere. I presupposti per un polo che non fosse solo industriale, ma anche culturale, furono posti quindi in tempi non sospetti. Nella seconda metà del Novecento, in un periodo di deindustrializzazione destabilizzante (che affronteremo alla fine), Mulhouse divenne la naturale destinazione di alcuni dei maggiori progetti di musei d’impresa, industriali, tecnici e scientifici di Francia e, di conseguenza, d’Europa, tanto da definirsi, con un po’ di quella grandeur autocelebrativa molto in voga nell’Esagono, la capitale di questo tipo di musei.
Ad aprire le danze fu, negli anni Settanta del secolo scorso, la SNCF, le ferrovie dello stato francesi. L’azienda ebbe l’idea di riunire in un unico museo il proprio patrimonio sparso fino ad allora nei depositi ferroviari. Inaugurato come Museo ferroviario francese, la Cité du train (questo il nome dal 2005) è stato costantemente ampliato e rinnovato, fino a raggiungere le dimensioni attuali che lo collocano al primo posto in Europa e al secondo nel mondo tra i musei di treni, dopo quello di Saitama in Giappone. Gli oltre cento pezzi esposti tra locomotive, vagoni e automotrici sono disposti lungo un percorso suddiviso in tre spazi: due al chiuso (Percorso Spettacolo e Binari della Storia) e uno all’esterno (Panorama Ferroviario).Il primo rende omaggio al cambiamento radicale provocato dall’impatto del treno sulla vita quotidiana dei francesi: le spettacolari scenografie ci portano in vacanza o sui campi di battaglia, nel cuore della politica come tra i celebri cheminots, come vengono chiamati da queste parti i ferrovieri. Il tema della vacanza è particolarmente evocativo in questo Paese, che vanta il primato delle ferie pagate istituite per legge già nel 1936: in quel periodo le auto erano ancora un sogno per i lavoratori e al mare ci si andava con la Micheline, una curiosa automotrice equipaggiata con pneumatici (indovinate la marca?) per migliorare il comfort di bordo. Se vi state chiedendo se fosse una buona idea, pensate a quanti treni con le gomme avete mai visto (a parte quello qui esposto).
I Binari della Storia sono una grande stazione dove, camminando tra i marciapiedi, percorrerete la storia del trasporto ferroviario francese dalla trazione a vapore fino a quella elettrica, incontrando qualche altra “stranezza” del posto come il treno spinto dalla turbina a gas, che ebbe più o meno lo stesso successo di quello con le gomme. Una curiosità che però ci porta al contributo più importante della Francia all’universo ferroviario: la ricerca dell’alta velocità. Questo è noto ovunque come il Paese del “Treno ad Alta Velocità” (TGV, Train à Grand Vitesse), ma siamo anche in una regione, l’Alsazia, dove circolano regionali a 200 all’ora. L’alta velocità è un orgoglio nazionale ma anche locale, grazie all’Alstom che nella regione ha parte delle sue radici. Un’esperienza iniziata con le locomotive degli anni ’50 capaci di sfondare il muro dei 300 km/h e culminata nel già menzionato TGV, che qui ammirerete nell’iconica veste arancione. All’esterno il Panorama Ferroviario accoglie ancora materiale rotabile in esposizione permanente e temporanea, una riproduzione di una piccola stazione di inizio Novecento, vecchi segnali e animazioni ludiche per famiglie con bambini. Il Panorama è inoltre situato ai bordi della ferrovia, da dove si può osservare il passaggio di qualunque mezzo a forma di treno, dai tranquilli tram urbani ai fulminei TGV. L’insediamento della Cité du train ha avviato la creazione un distretto della cultura tecnica e industriale formato da altri grandi musei. Proprio accanto al paradiso dei treni ha trovato posto il regno dell’elettricità: Electropolis è il museo di impresa di EDF, il principale produttore e gestore elettrico nazionale. Anch’esso si fregia del titolo di più importante museo d’Europa dedicato al proprio settore, in questo caso l’elettricità. Il suo simbolo è anche il motivo per cui esiste questo luogo: l’enorme e spettacolare gruppo elettrogeno, formato da una macchina a vapore e un alternatore, che fornì energia alla DMC tra il 1901 e il 1947. Il salvataggio di questo vero dinosauro dell’industria diede il la alla fondazione del museo. La diva si esibisce, nel senso che viene messa in funzione, su un vero palcoscenico, con le sedie da cinema da dove ammirare lo spettacolo. Tutt’intorno si celebra l’elettricità dalla produzione all’uso quotidiano: mentre pregevoli modelli illuminati di tutti i tipi di centrali elettriche e componenti veri (rispettivamente all’inizio dell’esposizione e all’aperto) raccontano l’aspetto industriale di questo mondo, la cospicua collezione di elettrodomestici, pubblicità e altri oggetti, tra cui notevoli pezzi di design, ci mostrano come la vita moderna sarebbe impensabile, e forse anche meno bella, senza gli apparecchi che trasformano quell’elettricità in un miglioramento della qualità della nostra vita. Chi conosce Mulhouse per i suoi musei (eventualità probabile tra chi segue questa pagina e l’autore) starà pensando “perché non ne ha ancora minimamente accennato?”, “quanto manca ancora per Quel museo?”. Ci stiamo arrivando, ma non possiamo farlo senza riprendere le fila della storia di questa città e arrivare al suo momento più drammatico. Un momento di svolta, rappresentato dagli anni Settanta del Novecento, che colpì le comunità come Mulhouse in tutto l’Occidente: la grave crisi economica suscitata dalla Guerra del Kippur e dal conseguente shock petrolifero imposto dalla reazione dei Paesi mediorientali produttori. Una crisi che sferzò in maniera durissima le realtà figlie della prima e della seconda Rivoluzione Industriale, la cui economia verteva su produzioni tradizionali come il tessile e la meccanica pesante.
Il luogo simbolo di questo trapasso epocale è oggi un museo di automobili, il quarto e il più grande (e il più famoso) dei musei dedicati al settore industriale in questa città. L’auto, a differenza dei treni, dei tessuti e delle turbine, è un prodotto minore per la storia di questo territorio: è vero che le sorti economiche di Mulhouse sono dettate da 60 anni dalla locale fabbrica della Peugeot, e che non lontano da qui nacque il mito Bugatti, recentemente resuscitato, ma l’auto non è parte dell’identità produttiva locale come altri settori.
Eppure è all’auto che oggi molti pensano quando sentono il nome Mulhouse, ma la ragione sta proprio in quegli anni di crisi ed è estremamente casuale. È il frutto di una storia incredibile iniziata dopo la Prima Guerra Mondiale, quando due ragazzini originari di Omegna si trasferirono a Mulhouse al seguito della madre che, rimasta vedova, decise di tornare nella sua città natale. Il marito, un certo Schlumpf, era un commerciante di stoffe svizzero, e i due figli si chiamavano Federico e Giovanni. Li conosciamo meglio come Fritz e Hans Schlumpf, poiché non si fecero mai chiamare pubblicamente coi nomi italiani, preferendo risaltare la loro parte svizzera.
I due ragazzi divennero negli anni Venti dei maghi della finanza, annoverati fra gli uomini più ricchi e potenti di Francia. Dopo la Grande Depressione del ’29, iniziarono a fare incetta di stabilimenti tessili in Alsazia, fino a diventare i leader incontrastati del settore. I fratelli Schlumpf non erano però gli austeri industriali protestanti dell’Ottocento, piuttosto degli abili speculatori. E lo speculatore veramente bravo è quello che vede prima degli altri dove un investimento può fruttare.
Arriviamo agli anni Sessanta quando Fritz iniziò ad accumulare vecchie auto. Voleva salvare quelle di inizio secolo, divenute rare ma da pochi viste già come qualcosa da preservare, così come i gioielli del suo amico di gioventù Ettore Bugatti. Le prendeva a poco prezzo e le faceva restaurare in gran segreto direttamente dalle maestranze della Bugatti a Molsheim. Tra il ’61 e il ’67 tra questa e altre marche Schlumpf mise insieme qualcosa come più di 400 pezzi, portati di nascosto in depositi all’interno dei loro stabilimenti, dove venivano curati da esperti artigiani.
Siamo ai famigerati anni Settanta. I due fratelli si trovarono in gravi difficoltà finanziarie, tra la crisi irreversibile dell’industria tessile europea e le continue spese per il mantenimento della gigantesca collezione di auto. Un licenziamento di massa nel ’76 spinse alcuni operai a sequestrare i due fratelli, che riuscirono a scappare in Svizzera. Un altro gruppo decise di occupare una delle fabbriche, una di quelle con dentro il “tesoro”: non appena si trovarono davanti a tutte quelle auto, illuminate da 500 splendide riproduzioni dei lampioni che adornano il ponte Alexandre III di Parigi, rimasero senza parole.
I sindacati dichiararono la collezione “bottino di guerra” e la aprirono al pubblico, spingendo per la vendita delle auto in modo da ricavare un sostentamento per le famiglie dei licenziati; anche i creditori dei fratelli Schlumpf pretendevano la messa all’incanto della collezione per ottenere indietro i loro soldi.
A molti fu però chiaro che quel tesoro non poteva andare perso, ma anzi rappresentava una risorsa per Mulhouse e tutta la Francia. La collezione fu confiscata dallo Stato in seguito a un processo nei confronti di Fritz Schlumpf per frode fiscale e altri reati, in seguito le vetture furono dichiarate monumento storico. Il successo delle aperture al pubblico e il conseguente richiamo turistico spinsero alla creazione di un’associazione tra gli enti pubblici e l’Automobile Club Francese con lo scopo di realizzare il museo. Il tribunale nel 1980 autorizzò la vendita delle auto e dell’edificio all’associazione per una cifra irrisoria, 44 milioni di franchi dell’epoca, quando soltanto le auto valevano già centinaia di milioni. Il thriller si concluse con la parziale riabilitazione di Fritz Schlumpf, a cui fu concesso nel 1990 di rientrare dall’esilio svizzero e vedere un’ultima volta la collezione a cui tanto si era dedicato; un anno prima gli era stato concesso di inserire il proprio nome all’interno della denominazione ufficiale del museo, che oggi si chiama Cité de l’automobile – Collection Schlumpf.
Entrare in questo posto rimasto sostanzialmente lo stesso di quando lo scoprirono i lavoratori in sciopero si comprende come la loro emozione fu qualcosa di complesso, di come alla rabbia di vedere cosa facevano i padroni con i profitti dell’azienda si sia presto affiancata la meraviglia per le auto incredibili e la scenografia da set cinematografico che era stata creata intorno. La semplice funzionalità degli shed mette in risalto le protagoniste di questo film che ci porta dagli albori artigianali dell’auto all’epoca della motorizzazione di massa postbellica, passando per i ruggenti anni Venti e Trenta dove protagoniste erano le creazioni di un estroso milanese emigrato in Alsazia: Ettore Bugatti. Delle 560 vetture da ammirare nel più grande museo automobilistico sulla Terra ben 120 appartengono alla Marque, come viene soprannominata nell’ambiente la casa di Molsheim. Considerata l’esigua produzione di queste vetture extralusso, è lecito pensare che una buona parte delle Bugatti sopravvissute si trovi tra queste mura. Sono inoltre presenti esemplari prodotti da tantissime case, vive e scomparse, più e meno famose. Straordinaria anche la sezione dedicata alle auto da corsa, dalle prime monoposto alle Formula 1 più recenti. Fuori dal museo c’è un piccolo autodromo dove fare un giro su fuoriserie e vetture classiche. Il viaggio alla scoperta di Mulhouse e della sua straordinaria eredità industriale non sarebbe completo senza un elemento fondamentale che ogni destinazione di questo tipo deve avere: la miniera. Anche qui tutto iniziò da una storia particolare che ha per protagonista stavolta una donna: Amélie Zurcher, proprietaria di un’azienda agricola presso Bollwiller, un villaggio poco distante dalla nostra “città dei mulini”. Nel 1893 una grave siccità colpì la regione e Amélie si trovò sull’orlo del lastrico; una notte sognò di trovare del petrolio nella sua proprietà e, memore anche della passione per la geologia sviluppata durante i suoi studi in convento, iniziò le ricerche minerarie. Dopo dieci anni, con l’aiuto di esperti tecnici e contro la diffidenza di amici e parenti, fece la grande scoperta: potassa.
Questo sale a base di potassio è ancora oggi un componente ricercatissimo nell’industria, base fondamentale per produrre fertilizzanti. Amélie, grazie a dei capitali tedeschi, riuscì a mettere in piedi un’impresa mineraria e ad avviare un’estrazione su scala industriale. Nacque ben presto un vero e proprio distretto, che includeva i comuni a nord di Mulhouse e attirò migliaia di lavoratori, anche dalla Polonia. Un’attività febbrile all’epoca ma oggi interamente scomparsa, di cui rimangono poche ma significative tracce, tra cui una delle più belle miniere d’Europa. Si tratta del Carreau Rodolphe, un monumentale complesso famoso soprattutto per l’eccentrico castello di estrazione in cemento armato. Il sito è in buono stato conservativo ed è costantemente manutenuto da un’associazione di volontari, che lo apre occasionalmente al pubblico. Durante le visite è possibile ammirare i macchinari e i notevoli equipaggiamenti della miniera che sono stati restaurati a scopo museale, come argani, escavatori e macchine da taglio. Dalle nozze tra un soldato ferito e la figlia di un mugnaio nacque una comunità operosa e ricca di inventiva, dove cultura latina e germanica si fondono all’ombra di ciminiere ormai spente, Se la prima parte è leggenda, la certezza è che Mulhouse è una destinazione favolosa per un viaggio alla scoperta delle radici industriali e culturali dell’Europa.