La vita operaia

di Mattia Zanotti

Leggendo le opere d’ispirazione industriale, una delle prime evidenze con cui si deve fare conti è che, già a partire dalla letteratura della pre-fabbrica, chi racconta la fabbrica la racconta spesso come un luogo funesto e infernale, in cui esiste un conflitto insanabile tra l’uomo e le macchine, tra la solidarietà e il profitto.
Come suggerisce Giuseppe Lupo in Orfeo tra le macchine, il primo a raccontare in prospettiva infernale l’officina è addirittura Dante Alighieri, quando, in Inf. XXI 7-15, paragona la V Bolgia in cui sono puniti i barattieri all’«arzanà de’ viniziani», vale a dire l’Arsenale di Venezia, che per il suo complesso produttivo può essere considerato una fabbrica ante litteram:

«Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa».

L'Arsenale di Venezia (da evenice.it)

L’Arsenale di Venezia (da evenice.it)

Nel Novecento, complice in diversi casi anche un pregiudizio nei confronti della tecnologia e una lettura politica e ideologica del fenomeno industriale, per chi ne ha scritto le fabbriche sono ancora, prendendo in prestito le parole della Visita in fabbrica (1961) di Vittorio Sereni, «asettici inferni» in cui dominano simboli di alienazione e di sofferenza, proprio come nel componimento del 1954 di Franco Fortini, L’officina:

«Questa vasta officina
di cose e di crani
dove noi lavoriamo
induriti nel cuore,
perfida officina
di disordine e cenere
di malattia e piaghe…».

È qui dunque, nell’«inferno di rumore e di caldo» de La linea gotica di Ottieri, che gli operai offrono la propria fatica, fisica e mentale, nel tentativo di guadagnare una possibilità di riscatto e di benessere, almeno economico.
Eppure la fabbrica, schermata dalla facciata moderna e liberatrice della grande rivoluzione industriale, non sembra poter affrancare chi lavora per lei, anzi. Ne ha scritto Carlo Bernari nel suo romanzo Tre operai (1934), che – ambientato entro i paralleli di Napoli e Reggio Calabria tra gli anni precedenti la prima guerra mondiale e la stagione dell’occupazione delle fabbriche del 1920-21 – racconta la storia di Teodoro, Marco e Anna, operai di lavanderia, e delle loro contrastanti tensioni sentimentali, sociali e ideologiche. Bernari, infatti, narrando un Sud Italia in cui dal mare e dai panorami mozzafiato spuntano forse per la prima volta ciminiere e fumo, non racconta una fabbrica che sia fonte di benessere e di riscatto ma la tristezza operaia in un mondo schiacciato dalle sue ristrettezze materiali e morali, i cui protagonisti e attori sono destinati a non superare la propria condizione di vinti di contadina memoria: gli operai emergono come isolati, naufraghi, legati a un lavoro molto faticoso che viene ricompensato solo da un invincibile stato di stanchezza e di straniamento.

Bagnoli (da www.liberopensiero.eu)

Bagnoli (da www.liberopensiero.eu)

È uno degli estremi della contidion ouvrière, utilizzando il titolo dell’opera di Simon Weil (Ed. Gallimard 1951) tradotta in Italia da Franco Fortini per le Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti nel 1952. In questa raccolta di appunti, lettere e saggi, la filosofa francese, che per fare esperienza diretta della vita di fabbrica scelse di impiegarsi come manovale nel lavoro a cottimo in una grande azienda, ci offre «una rappresentazione della vita di fabbrica condotta al limite della umana sopportabilità», per dirla con le parole di Giancarlo Gaeta. La fabbrica, con le sue logiche e i suoi metodi produttivi, incatena gli operai alle macchine e ai torni, alla catena di montaggio; li obbliga in luoghi cupi e freddi a lavori pesanti e monotoni.
È in questa geografia di luoghi e in questo ripetitivo svolgersi di mansioni che si articola nel romanzo
Tempi stretti di Ottieri, pubblicato nel 1957 per i Gettoni Einaudi diretti da Elio Vittorini, la storia di un’operaia le cui caratteristiche paiono essere ricalcate su quelle della figura di Simon Weil. È la storia di Emma, una ragazza costretta dalla necessità a lavorare entro le «officine infernali» di una grande industria meccanica di Milano, la Zanini. Ottieri, «scrittore di carne triste» secondo Calvino, scegliendo di utilizzare uno stile grigio e monotono realizza un romanzo sulla «tristezza operaia», come indica la citazione di Georges Navel in apertura del libro: Emma, pur abituandosi – alla fine – all’abbruttimento e alla pesantezza del lavoro in fabbrica, vive insieme agli altri operai schiacciata dalla durezza della catena di montaggio e dai ritmi disumani del lavoro a cottimo, i cui tempi diventano ogni giorno sempre più stretti. «I tempi stretti si sommano dilatandosi, trasformandosi in una vita intera, preannunciando quella che oggi è la vita sociale dei nostri operai»; la fabbrica, infatti, con i suoi ritmi frenetici fagocita non solo la vita lavorativa degli operai ma anche la vita al di fuori dell’officina, persino la vita di coppia. Lo accenna Giovanni Arpino ne Gli anni del giudizio (1958): «Se non parlavamo tra noi al sabato sera e alla domenica, durante la settimana non ne avremmo avuto più il tempo». Lo riferisce anche Italo Calvino, con la leggerezza propria della sua scrittura, nella novella L’avventura di due sposi, contenuta nella raccolta Gli amore difficili (1958). Nel racconto, la fabbrica non si vede, ma c’è: si sente. È intervenuta a modificare i rapporti tra Arturo ed Elide, marito e moglie che hanno smesso di appartenersi l’un l’altro – se non al mattino, quando lui rincasa dal turno e lei si sveglia – per appartenere al lavoro, che impone le sue regole e detta i suoi ritmi.

Stabilimenti Pirelli nel quartiere Bicocca a Milano (da commons.wikimedia.org)

Stabilimenti Pirelli nel quartiere Bicocca a Milano (da commons.wikimedia.org)

A ogni modo, nelle opere d’ispirazione industriale la catena di montaggio non rappresenta simbolicamente solo alienazione e difficoltà psicologiche, ma anche vera e propria malattia. Lo si vede nel film Tempi moderni (1936), in cui Charlot (Charlie Chaplin), operaio addetto a stringere bulloni in una catena di montaggio, si procura un esaurimento nervoso a causa dei ritmi frenetici e monotoni del lavoro in fabbrica; un esaurimento che lo porta addirittura a convincersi che i bottoni della gonna di una collega siano bulloni da avvitare. Nella letteratura italiana, invece, un testo paradigmatico relativamente all’insorgere di malattie dovute al lavoro in fabbrica è Memoriale (1962) di Paolo Volponi. Il protagonista di questo romanzo è Albino Saluggia, contadino reduce della seconda guerra mondiale assunto in una grande industria del Nord Italia. I “mali” di Albino, nevrotico e paranoico, hanno origine da un’infanzia difficile e dall’esperienza della guerra, ma si esasperano a causa dell’oppressione e della spersonalizzazione del lavoro operaio, della prigionia del sistema produttivo della fabbrica, che aliena gli individui e li rendi mere appendici delle macchine.

Bibliografia di riferimento

O. Ottieri, Tempi stretti, Einaudi, Torino 1957.
G. Arpino, Gli anni del giudizio, I coralli n. 91, Einaudi, 1958.
P. Volponi, Memoriale, Garzanti, Milano 1962.
I. Calvino, I racconti, Einaudi, Torino 1970.
C. Bernari, Tre operai, Mondadori, Milano 1993 [1934].
S. WeilLa condizione operaia, traduzione di Franco Fortini, postfazione e note di Giancarlo Gaeta, Milano, SE, 1994 [1951].
O. Ottieri, La linea gotica, in Ottieri, Opere scelte, Mondadori, Milano 2009.
G. Lupo, Orfeo tra le macchine, in BigattiLupo, Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Roma 2014.

Foto di copertina: Tempi Moderni (1936), di Charlie Chaplin, da inchiostro.unipv.it