di Mattia Zanotti
Nel 1957 per i Gettoni di Einaudi – collana editoriale diretta da Elio Vittorini con l’ausilio di diversi collaboratori, tra cui Italo Calvino – veniva dato alle stampe Tempi stretti di Ottiero Ottieri, un libro-documento d’ispirazione industriale dal tono grigio e cronachistico scritto da un autore «di carne triste», prendendo in prestito le parole di Calvino. Nello stesso anno, il 1957, sempre per i Gettoni della casa editrice torinese usciva un’altra opera narrativa a sfondo industriale, Gymkhana Cross di Luigi Davì. Le due opere, entrambe ambientate in un Nord Italia ormai a decisa trazione industriale, sono state pubblicate nella stessa collana della medesima casa editrice in unico anno, eppure sono estremamente diverse. Se, infatti, il romanzo di Ottiero Ottieri racconta il lato grigio, equivoco e per certi versi ideologizzato dell’industrializzazione degli anni ’50 in Italia, quello di Luigi Davì è un assortimento di racconti dalle cui pagine si avverte l’idea che «gli operai siano anche gente allegra e le fabbriche anche una via di libertà», citando una lettera di Calvino del 1956 indirizzata all’Ottieri di Tempi stretti, alla cui realizzazione editoriale la direzione einaudiana stava contemporaneamente lavorando.
Dal romanzo di Davì, scrittore e operaio, affiora appunto «la faccia allegra e scooteristica del mondo industriale»; nelle sue pagine, infatti, scritte con vivacità e freschezza, non c’è traccia di tristezza operaia o alienazione, nemmeno di scioperi: la fabbrica è luogo di lavoro ma, soprattutto, luogo di riscatto. La civiltà industriale che esce dalla narrazione di Davì è una civiltà che affranca coloro che la abitano. Non si potrebbe essere più lontani, idealmente almeno, dalle parole dell’Ottieri di Tempi stretti. È una distanza, tuttavia, che non esige in alcun modo di essere colmata, dal momento che entrambi gli estremi della condizione operaia raccontati in questi romanzi, quello grigio e alienato di Ottieri e quello vivace ed emancipatore di Davì, non devono escludersi a vicenda, ma anzi coesistere e integrarsi al fine di avere una narrazione che, nel suo insieme, sia profonda e articolata. Se la visione di Ottieri infatti, prendendo atto della fatica del lavoro alle presse e ai torni e della durezza dei turni alla catena di montaggio, s’inserisce a pieno titolo in un filone letterario e saggistico che vedeva nella fabbrica un luogo di alienazione e di grigiore, la prospettiva di autori come Luigi Davì allarga le maglie del discorso, e in un certo senso si propone di dichiarare che «soltanto la civiltà della fabbrica ha potuto ridare dignità alle classi meno agiate […], restituendo […] un’idea di lavoro quale appagamento materiale, di riscatto, di fuga da una condizione subalterna», come scrive Giuseppe Lupo.

Operaio dell’Alfa Romeo di Arese (da quandoilbiscionemordeva.forumalfaromeo.it)
Un appagamento materiale che viene dal lavoro, dallo stipendio fisso alla fine del mese, contrassegno della possibilità di condurre una vita stabile, almeno economicamente. Peraltro, sarà lo stesso Ottieri, acuto osservatore dell’industria nella sue diverse facce, a far dire all’io narrante del suo successivo romanzo, Donnarumma all’assalto (1959), che gli operai ma soprattutto gli aspiranti lavoratori, estremamente numerosi in un Mezzogiorno affamato di occupazione, «sentono tutti che la fabbrica dà il pane sicuro […]; li lega alla macchina ma li avvicina a qualche liberazione». Un affrancamento che, oltre a garantire il pane in tavola, sembra anche in grado di assumere i connotati e i contorni della felicità: con lo stipendio del lavoro in officina ci si poteva permettere qualche agio, una forma di benessere; si potevano acquistare i prodotti visti nelle vetrine dei centri commerciali o sui cartelloni pubblicitari che tratteggiavano il panorama di Milano e delle altre città italiane tra gli anni ’50 e ‘60.
Una felicità, superficiale quanto si vuole e magari illusoria, ma pur sempre una felicità finalmente a portata di mano. Lo racconta Giuseppe Lupo nel suo romanzo Gli anni del nostro incanto (2017). Un romanzo che non può dirsi industriale in senso proprio, dal momento che non è ambientato tra i torni e le presse. Eppure l’industria e i suoi benefici si percepiscono. Siamo a Milano nel luglio 1982, mentre in Spagna la Nazionale italiana sta per laurearsi Campione del mondo. In un ospedale milanese, Vittoria, al capezzale della madre ricoverata per un improvviso sonno della memoria, tenta di ripercorrere per lei la storia familiare, che parte dall’Italia degli anni ’60, spensierata nel miracolo economico, e arriva fin lì, attraverso l’epoca della contestazione giovanile e gli anni di piombo. Per ricreare questa saga familiare, Vittoria si avvale di una fotografia uscita sul settimanale Gioia diversi anni prima: in questo rettangolo di carta in bianco e nero si vedono, in sella a una Vespa, il padre Louis, operaio emigrato dal Sud, e la madre parrucchiera di origine veneta; il piccolo Bartolomeo, detto Indiano, e appunto Vittoria. A bordo dello scooter, la famiglia sembra muoversi dalla povertà, conosciuta e vissuta dai genitori, alla vita “sbarluscenta”, come usa dire la madre, «l’epoca luminosa che tutti noi attraversiamo quando ci sentiamo il mondo in tasca».

Insegne pubblicitarie in Piazza Duomo a Milano (da blog.urbanfile.org)
A ogni modo, non emerge soltanto l’idea che la fabbrica abbia offerto un appagamento materiale ai suoi dipendenti, ma sia stata anche in grado di restituirgli una dignità morale, derivante dal lavoro. Un primo esempio è ravvisabile proprio in alcuni racconti di Gymkhana Cross, in particolare nel vivace Il calibro, in cui emerge oltre al legame tra il lavoratore e i suoi utensili anche e soprattutto la dignità operaia, che viene dal lavoro e ritorna nel lavoro svolto. Entrambe le cose, l’importanza degli attrezzi e la dignità del lavoro, sono ravvisabili anche ne La chiave a stella (1978) di Primo Levi, un romanzo che racconta la storia di Libertino Faussone, operaio addetto a montare le gru in giro per il mondo e orgoglioso della propria occupazione. L’orgoglio del protagonista si riflette in alcune frasi dell’autore; frasi per le quali in quegli anni si griderà allo scandalo: «L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. […] È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge».
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
O. OTTIERI, Tempi stretti, Einaudi, Torino 1957.
L. DAVÌ, Gymkhana Cross, Einaudi, Torino 1957.
O. OTTIERI, Donnarumma all’assalto, Garzanti, Milano 1959.
P. Levi, La chiave a stella, Einaudi, Torino 1978.
La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, a c. di V. CAMERANO, R. CROVI, G.
GRASSO, con la collaborazione di A. TOSONE, introduzione e note di G. LUPO,
Aragno, Torino 2007.
G. LUPO, Orfeo tra le macchine, in BIGATTI – LUPO, Fabbrica di carta. I libri che
raccontano l’Italia industriale, Laterza, Roma 2014.
G. LUPO, Gli anni del nostro incanto, Feltrinelli, Milano 2017.
Immagine di copertina: Operai della FIAT di Termoli