Industria e secolo breve in Friuli
di Jacopo Ibello
Scopri le altre tappe dell’itinerario: Fiume, Istria e Trieste.
Nella quarta e ultima tappa del nostro viaggio lungo il confine orientale italiano affrontiamo il rapporto tra il patrimonio industriale e l’evento che segnò in profondità queste terre: la Prima Guerra Mondiale. Il conflitto fu molto sentito in Italia sia per le terribili perdite umane che per le drammatiche condizioni economiche imposte alla popolazione, ma è anche opinione diffusa che fu un grande momento per la creazione di una coscienza nazionale in un’Italia ancora giovane. Molto più del Risorgimento: a differenza di quello che era accaduto cinquant’anni prima, le persone che combatterono per la patria non provenivano da una parte geografica piuttosto che da uno strato sociale. Le centinaia di migliaia di soldati mandati a combattere tra gli altipiani e il Carso provenivano da tutti gli angoli della penisola e appartenevano a tutti i ceti, costituendo così il primo grande momento di unità nazionale popolare nella storia italiana.
La Grande Guerra, che fu mondiale, fu però un conflitto locale in Italia, almeno dal punto di vista territoriale. Solo la parte nordorientale del Paese ne fu effettivamente colpita in tutta la durezza tipica di una guerra. Per questo ogni città, villaggio, valle o vetta di quest’area ne conserva ancora oggi, dopo oltre un secolo, le tracce. Anche i luoghi del patrimonio industriale da queste parti raccontano storie di guerra, come vedremo.
Da questo punto di vista le aree interessate dal nostro racconto non hanno una vocazione propriamente industriale, oggi ma soprattutto un secolo fa. Il Friuli era una terra essenzialmente agricola dove l’impatto della modernità fu relegato ad alcuni luoghi, che proprio per questo però avevano una certa valenza strategica in ambito bellico. Tra i centri che potremmo definire industriali spicca sicuramente Monfalcone: tra Otto e Novecento qui si erano insediate diverse piccole e medie aziende, oltre al grande stabilimento del Cotonificio Triestino. La realizzazione del Canale de Dottori e di alcune centrali idroelettriche aveva accentuato la vocazione produttiva di quello che era sempre stato un borgo di pescatori e contadini, ma non fu questo a determinare il destino della cittadina bisiacca. Fu la famiglia lussignana dei Cosulich, armatori sin dal 1857, a fondare nel 1908 il Cantiere Navale Triestino, “inventando” così, dal nulla, quello che sarebbe diventato il più grande polo navale italiano, surclassando luoghi dalla tradizione secolare nella cantieristica come Genova e Napoli.
Nei pochi anni prima dello scoppio del conflitto lo stabilimento si affermò rapidamente come punto di riferimento nell’industria navale dell’Austria-Ungheria, sia per le commesse militari della Marina che per le costruzioni civili. Esempio fu il transatlantico Kaiser Franz Joseph I, il più grande mai costruito nell’Impero, che dal 1912 fece la spola tra Trieste e gli Stati Uniti. E lo sarebbe stata anche la “costruzione 39”, che prima di diventare Kaiserin Elizabeth si trovò nel posto sbagliato nel momento sbagliato, nella maledetta estate del 1915. Da strumento di connessione tra nazioni lontane, lo scafo divenne punto di conquista di una linea del fronte, come tutto il cantiere e tutta la città.
La città che prima dello scoppio del conflitto si apprestava a diventare uno di quegli esperimenti di convivenza tra padroni e operai molto in voga all’epoca, noti come company town. I Cosulich, con la consulenza del valido ingegnere Dante Fornasir, abbozzarono l’idea di una comunità per le migliaia di dipendenti che già allora popolavano la grande fabbrica di navi. Un progetto bloccato dalla guerra che devastò letteralmente la fabbrica e il territorio, ma che riprese con vigore una volta restaurata la pace. Cominciando da un monumentale palazzo che non sfigurerebbe sul Ring di Vienna, l’Albergo Operai destinato ai lavoratori celibi, dove oggi possiamo vivere l’epopea delle navi e di uomini e donne che l’hanno resa possibile: qui è sorto il Museo della Cantieristica (MuCa), ma il nome non inganni, non è una collezione di modellini, piuttosto un luogo dove le memorie del lavoro sono custodite per comprendere l’impatto dello sforzo industriale sull’ambiente, sulle persone, sullo sviluppo sociale e tecnologico, sul design e sull’arte.
Un edificio anch’esso segnato da una guerra mondiale, la seconda, distrutto così come il meraviglioso teatro, ma in qualche modo arrivato con le sue rovine fino ai giorni nostri e ricostruito per tramandare le storie di Monfalcone e del suo cantiere, inclusa quella del leggendario teatro, di cui ammiriamo le magnifiche tele dell’artista Vito Timmel. Tutt’intorno non abbiamo però il villaggio operaio sotto la campana di vetro, con attori vestiti in stile vittoriano che manovrano strani macchinari a vapore. No, Panzano (questo il suo nome), è quello che era un secolo fa: la casa degli operai del cantiere. La fabbrica dei giganti del mare, che non trasportano più emigranti e jet-set ma turisti in cerca di relax e benessere, pulsa come non mai. Non venite al MuCa senza farvi un giro in pullman nel regno Fincantieri, la vera realtà aumentata di un’esperienza, quella del Polo museale della Cantieristica, che riunisce alla perfezione storia industriale e cultura d’impresa, arte e tecnologia, realtà e multimedialità.
Anche il Friuli è stato contrassegnato come le terre “visitate” nelle precedenti tappe di questo itinerario dalle tensione etniche tra le nazionalità che condividevano queste regioni. Una città ne porta il segno indelebile, ancora oggi: Gorizia. Il suo è un nome inconfondibilmente slavo, la cui radice identifica la geografia montuosa del territorio in cui è sorta, ai piedi del Carso, al confine tra Friuli e Venezia Giulia, in uno di quei luoghi descritti come “ponte tra oriente e occidente”, ma questo è uno dei casi in cui è veramente così. Il dramma di Gorizia, città un po’ slovena, un po’ italiana, per secoli austriaca, si consumò tra le due guerre mondiali: conquistata e devastata dagli italiani nella prima e dagli sloveni nella seconda. Oltre ai danni materiali le due fazioni non si risparmiarono, a seconda della vittoria, violenze e vendette etniche nei confronti dei rivali.
Alla fine, dopo il 1945, si arrivò a creare due città divise da un confine. Alla vecchia Gorizia italiana si contrappose la nuova Gorizia jugoslava (Nova Gorica, per l’appunto), che nacque mettendo insieme alcune frazioni orientali del vecchio comune unite in una moderna città di fondazione. Nonostante fosse più piccola, la nuova città riuscì a strappare alla vecchia un pezzo importante: la stazione dei treni. E, sul piazzale antistante, venne eretto un muro. Un muro senza torrette, strisce della morte e cecchini armati, ma la sensazione che Gorizia fosse una specie di piccola Berlino era forte nella Guerra Fredda. Fa scalpore poi pensare che il simbolo di divisione fosse un edificio, la stazione ferroviaria, pensato in realtà per favorire il movimento e l’incontro delle persone. Persone di culture e luoghi lontani, come quelli connessi dal sistema di linee noto come Ferrovia Transalpina, nato come alternativa alla Meridionale per connettere l’interno dell’Impero Austro-Ungarico col porto di Trieste. Dopo un ardito ma affascinante percorso attraverso strette vallate (rimasto quasi immutato fino a oggi), si giungeva a Gorizia che nella Belle Époque si fregiava del soprannome di “Nizza austriaca”: il suo clima mite, le sue architetture che spaziavano dal magnifico castello medievale ai palazzi barocchi la resero un’ambita meta turistica per aristocratici e funzionari imperiali, che qui fecero erigere ville e lussuosi alberghi.
La degna accoglienza per chi arrivava era una monumentale stazione ferroviaria che trasmettesse queste sensazioni, dallo stile inconfondibilmente austriaco che ci restituisce ancora oggi, nonostante tutte le vicissitudini che ha visto accadere intorno, parte dello spirito di quei tempi. Oggi non c’è più un muro a dividere la piazza, possiamo attraversarla ed entrarci, magari prendere un treno che ci porti in uno dei pittoreschi villaggi lungo l’Isonzo. Le due città di Gorizia e Nova Gorica si incontrano qui non solo simbolicamente: la stazione fa da punto di accoglienza per entrambe, un ruolo che sarà ancora più forte in vista del 2025, quando le due “Gorizie” (mi perdoneranno…) saranno un’unica Capitale Europea della Cultura. Il KIT Cultural Information Touchpoint non dà solo informazioni e vende souvenir turistici, ma si occupa anche di organizzare eventi culturali che avvicinino sempre di più le comunità italiana e slovena. A proposito di Slovenia, si raccomanda agli appassionati di ingegneria e, più in generale, di “relitti” dell’era industriale, un’incursione nella frazione di Salcano, una specie di paese che, seppur parte di Nova Gorica, ha mantenuto la propria identità. Qui fa bella mostra di sé una meraviglia che dopo oltre un secolo conserva il suo primato mondiale: il più lungo ponte in pietra ad arcata unica sulla faccia della Terra. Quella che vediamo è una ricostruzione italiana dell’originale austriaco distrutto nella Grande Guerra ma, a parte il numero di archi di raccordo della campata (quattro anziché cinque), è uguale. Il fatto che la Transalpina sia oggi una linea regionale e non più internazionale col conseguente traffico di persone e merci, ha sicuramente contribuito al fatto che il ponte sia in grado di fare ancora il suo lavoro. La luce dell’arcata arriva a 85 m, una vera e propria sfida per le conoscenze e le tecnologie di inizio Novecento. Si dice che gli italiani lo avessero ricostruito quasi identico per dimostrare agli austriaci che anche loro sarebbero stati in grado di spingersi così al limite. Un colosso allo stesso tempo esile aggrappato alle rive dell’Isonzo, ai piedi del Sabotino, al cospetto del quale l’ammirazione e il rispetto per i suoi progettisti e costruttori rimane lo stesso di cento anni fa.
È il momento questo di inoltrarci tra le Alpi Giulie e scovare l’ultima destinazione di questo viaggio che ci ha portato a scoprire il confine orientale italiano. La troviamo in una delle incantevoli valli che si aprono tra le cime di queste montagne, dove si spalanca una delle tante “porte” tra mondi che caratterizzano la frontiera. Il Passo del Predil è noto sin dai tempi più antichi: è da qui che si suppone siano passati i Longobardi per invadere l’Italia. Da fine Settecento ha assunto però anche un altra fama: quella di campo di battaglia. Qui infuriarono le battaglie tra la Francia napoleonica e il suo acerrimo nemico, l’Austria. Circa un secolo dopo, cannoni e fucili tornarono a incrociarsi sul Predil, ma non solo sopra, come vedremo dopo.
A rendere strategici questi luoghi non era solo il passaggio tra le montagne, ma anche ciò che si celava nel sottosuolo. Anche qui, come per il passo, storia antichissima: i primi a rendersi conto delle ricchezze minerali (piombo e zinco, per la precisione) pare furono i romani, seguiti poi dagli austriaci che svilupparono la miniera di Raibl dalle prime concessioni medievali fino alla Rivoluzione Industriale. Alle porte della Grande Guerra, dopo la quale questa zona sarebbe finita in mani italiane, Raibl si presentava come una piccola comunità del progresso, illuminata dall’energia elettrica in un paesaggio, quello alpino, spesso oscuro e isolato. Una delle miniere più sicure del mondo, grazie all’eccezionale salubrità dell’aria nelle sue gallerie, che causava pochi incidenti sul lavoro e nessun problema di salute ai suoi lavoratori. In un panorama, quello minerario otto-novecentesco, costellato di grandi tragedie, l’unico vero dramma a Raibl fu l’ospedale del villaggio inghiottito letteralmente nel sottosuolo dopo il crollo di una galleria. Era il 1910 e, 4 anni dopo, allo scoppio della guerra, la comunità eresse sul posto un monumento che ancora oggi ricorda le sette vittime.Ci sono tante meraviglie tecnologiche, geologiche, storiche e antropologiche a Cave del Predil (questo il nome del villaggio dopo il passaggio all’Italia), che è caldamente raccomandato scoprire nei musei e nell’esplorazione della galleria mineraria visitabile, con l’immancabile giro sul trenino. Dopo la chiusura definitiva della miniera nel 1991, Cave del Predil ha perso più della metà dei suoi abitanti e gran parte della sua vita sociale ed economica, ma qui è nato un importante polo di cultura industriale che attrae migliaia di visitatori tutti gli anni, desiderosi di scoprire le storie di miniera e di guerra che questo territorio ha da raccontare. Miniera e guerra si incrociano nella meraviglia delle meraviglie di Raibl: la galleria di Bretto. Questo capolavoro di ingegneria ideato a fine Ottocento per drenare le acque ristagnanti nel sottosuolo è lungo quasi cinque chilometri. Parte da qui e arriva in una frazione di Plezzo, Bretto per l’appunto: all’epoca si trovava in territorio austro-ungarico, dopo il 1919 passò all’Italia e, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, una parte cadde in territorio jugoslavo (dal 1991 sloveno). Nel 1917 i comandi austro-tedeschi sfruttarono questa galleria per far transitare centinaia di migliaia di soldati, armamenti e mezzi, eludendo la sorveglianza italiana. Fu nei sotterranei della miniera di Raibl che si preparò la disfatta di Caporetto, quando il Regio Esercito venne colto di sorpresa e finì in rotta causando un numero abnorme di morti, feriti, prigionieri e sfollati. In quell’autunno l’Italia perse tutte le conquiste fatte nei due anni precedenti, e si temette per la tenuta dell’intero Paese in seguito alla gigantesca e altrettanto disastrosa ritirata. Le cose per fortuna non andarono così, come ben sappiamo.
Ma la galleria di Bretto fu anche, come la stazione Transalpina di Gorizia, un simbolo della Guerra Fredda. Come detto in precedenza, venne divisa tra Italia e Jugoslavia: nella galleria venne installato un cancello, emanazione sotterranea della Cortina di Ferro. Per le manutenzioni era necessario sconfinare e un vero e proprio posto di confine si trovava in corrispondenza della galleria. Con l’ingresso nell’area Schengen della Slovenia il cancello venne rimosso.
Con l’avvento dell’Unione Europea le comunità di confine sembrano poter riprendere quella vita di scambio e condivisione che, seppur in modo talvolta conflittuale, hanno portato avanti fino all’epoca dei nazionalismi e della divisione del continente in due blocchi. E che, in realtà, neppure questi due fenomeni hanno bloccato: pensiamo all’affascinante storia del mercato di Ponterosso. Ma oggi ancor di più turisti cechi, austriaci e ungheresi affollano di nuovo i caffè di Trieste e le spiagge dell’Istria, la Gorizia italiana e la Gorizia slovena si ritrovano nel luogo che una volta le divideva, Fiume cerca di trasmettere nel Terzo Millennio quei valori di multiculturalità che la rendevano una città unica in Europa oltre cento anni fa. E, più semplicemente, gli abitanti del confine ritornano a sentirsi una comunità che ha più da condividere che da dividere, anche magari la strada per tornare a casa dal lavoro, perché si fa prima a passare in Slovenia per tornare in Italia.
Mettendo in discussione quel confine geografico, politico, ideologico, linguistico che ha segnato da sempre l’identità di questi territori. E forse è giusto chiudere il viaggio davanti alla stazione abbandonata di Tarvisio Centrale, monumento che ricorda l’epoca d’oro di un villaggio divenuto importante grazie a un confine, mentre accanto scorre la Ciclovia Alpe-Adria, costruita sul tracciato dell’antica Ferrovia Pontebbana, dove oggi transitano turisti che dalle Alpi si dirigono in bici verso il litorale adriatico. Senza confini.