Viaggio in una delle più antiche città minerarie del mondo

di Jacopo Ibello

Poche città testimoniano meglio il concetto di cultura industriale come quelle nate apposta per produrre. Spesso si tratta di luoghi con non più di 200 anni alle spalle, essendo l’industria un fenomeno moderno. Ma il lavoro, la produzione, la manifattura, non nascono con la rivoluzione industriale: essi sono molto più antichi. Esistono comunità nate e cresciute grazie all’industria già da secoli prima: sono molto rare ovviamente, ma questo le rende più affascinanti e intriganti da scoprire.

Iglesias è forse la città che meglio rappresenta quanto detto. La sua vocazione mineraria risale a tempi lontanissimi, da quando Romani e altri popoli battevano queste montagne della Sardegna in cerca del prezioso argento. Anche se oggi le miniere sono tutte chiuse, Iglesias rimane comunque una città mineraria, poiché a esse deve l’esistenza, l’identità culturale e il paesaggio. Senza non ci sarebbe semplicemente stata: vale anche per le sue tante chiese (a cui deve il nome), le antiche mura e il castello. L’aspetto è di una cittadina medievale come tante in Italia, ma Iglesias è invece una città industriale ante litteram.

Meno difficile passare dall’ante litteram al post-moderno: nelle sue strade deserte, negozi vuoti e case in vendita, e soprattutto nella miriade di ruderi industriali sparsi intorno alla città, Iglesias resta purtroppo in perfetta sintonia con luoghi simili in tutta Europa, dalla vicina Carbonia al Galles o al Belgio.

Ciò che rende diversa l’antica Villa di Chiesa, che si vuole fondata dal leggendario Conte Ugolino, è proprio questo rapporto secolare con il sottosuolo e le montagne che i minatori hanno scavato e riscavato fino a creare una fitta rete quasi invisibile, come dei vasi sanguigni in un corpo, la cui vita dipende dal loro funzionamento.
Ne erano ben consci gli abitanti, quando diedero fuoco alla città nel 1354 per non vederla cadere in mano agli Spagnoli (a cui dobbiamo il nome attuale), ma salvarono il loro codice di diritto, il Breve di Villa di Chiesa. Questo, conservato ancora oggi nell’archivio comunale, è una raccolta di leggi che riguardano anche il settore minerario-metallurgico. Senza di esso sarebbe stato impossibile continuare una vita anche dopo la guerra. Leggendolo si scoprono curiosità come l’utilizzo di termini derivati dal linguaggio tecnico tedesco (come l’autorità massima del settore, il “Maestro del Monte”, traduzione letteraria di Bergmeister): è la testimonianza dell’importazione nel Medioevo di tecnici minerari provenienti dalla Germania, cosa che i Della Gherardesca già avevano fatto nel loro borgo minerario in Toscana, Rocca San Silvestro.

Iglesias era quindi un luogo dove alla popolazione sarda si mischiavano Pisani, Spagnoli e genti da tutta Europa. Perché, com’è noto, in fondo ai sardi delle miniere della loro terra è sempre restato ben poco: ai Tedeschi del Medioevo si unirono in epoca moderna Belgi, Inglesi, Francesi e altri (forse anche gli stessi Italiani li possiamo annoverare tra gli stranieri). Erano questi in realtà i veri capitani d’impresa e raramente i Sardi riuscirono a imporsi, se non come tecnici specializzati.

Il piemontese Quintino Sella, grande esperto di finanza pubblica e alpinismo, ma anche di miniere, durante i suoi viaggi in Sardegna capì l’importanza di formare tecnici in loco piuttosto che importarli dall’estero. A lui si deve la nascita nel 1871 dell’Istituto Minerario, che successivamente fu intitolato al famoso Ing. Giorgio Asproni.

Questa scuola è stata fucina di esperti periti minerari che hanno sperimentato il loro lavoro già sui banchi: di sotto si trova infatti un’accurata ricostruzione di una galleria mineraria, utilizzata dagli anni ’30 come luogo di pratica per gli studenti.

Oggi è l’attrazione del piccolo ma prezioso Museo dell’Arte Mineraria, dove un’associazione di periti mostra ai visitatori la galleria-scuola ormai in disuso insieme a una pregevole collezione di documenti, macchinari e strumenti minerari. L’Istituto Asproni ospita anche una notevole raccolta di minerali nel suo Museo Mineralogico e Paleontologico.

Per visitare le miniere vere invece bisogna uscire da Iglesias e inoltrarsi nel suo montuoso circondario. Più grande del Comune di Milano, il territorio iglesiente è un fascio di montagne che si estende verso ovest fino a piombare, quasi all’improvviso, nel mare. Seguendo questa direzione, è un continuo incontrare ex colonie minerarie, laverie e pozzi dismessi, ferrovie abbandonate. Una delle aree più ricche di archeologia industriale del mondo insieme a tutto il sud-ovest della Sardegna.

Uscendo dal centro la prima grande miniera che si incontra è Monteponi, il vero cuore pulsante di Iglesias per secoli. Dalla strada principale si prende un lungo viale alberato che finisce in una grande piazza dove si affacciano gli impianti minerari, arrampicati sulla montagna rovinata da anni di scavi. Sulla cima si vedono i resti di un’antica fonderia di piombo che culminano in un camino crollato. Nel piazzale ci sono alcuni edifici di architettura razionalista,: l’ufficio postale, l’asilo e la chiesa (ex casa del fascio).

Superando il cancello si sale e si arriva alla Palazzina Bellavista, l’elegante e lussuosa sede della direzione della miniera: da qui si gode di un panorama unico, dove la natura delle montagne viene rotta dalle miniere dismesse e dai cumuli di scorie, i famosi fanghi rossi di Monteponi.

Accanto alla palazzina si ergono imponenti le rovine dell’impianto per la produzione di zinco attraverso l’elettrolisi, il primo del suo genere in Europa. Di fronte altre rovine: l’impianto di lavorazione del piombo, sovrastato dalla torre del Pozzo Vittorio Emanuele. Finita la corsa all’argento del Medioevo, piombo e zinco divennero l’oro dell’era moderna per Iglesias e gran parte della Sardegna mineraria.

Video dell’Istituto LUCE sul funzionamento dell’impianto elettrolisi

Le miniere sarde alimentavano le fonderie del Nord Italia, della Francia, del Belgio e della Gran Bretagna, contribuendo decisivamente allo sviluppo della rampante Europa industriale dell’Ottocento. Sull’isola non restava invece quasi nulla, se non la manodopera di uomini, donne e bambini: in questo la Sardegna ha anticipato l’industria mineraria post-moderna, localizzata in Paesi lontani che traggono pochissimi benefici dallo sfruttamento delle risorse locali.

Continuando la salita si arriva a un altro piazzale: il piccolo ingresso della Galleria Nicolay viene sovrastato dal capannone che ospita l’archivio e dal magnifico Pozzo Sella del 1874, realizzato per pompare l’acqua dal sottosuolo che avrebbe altrimenti impedito la coltivazione dei minerali.

L’archivio minerario è un vero tesoro per la cultura industriale europea: esso conserva documenti, rilievi, carte, fotografie, disegni che raccontano secoli di avventura mineraria sarda, oltre a testi e manuali di tecnica e ingegneria mineraria provenienti da tutta Europa. Una curiosità: alcuni locali dell’archivio sono ricavati dentro le celle dove vivevano i detenuti condannati ai lavori forzati in miniera.

Il Pozzo Sella è invece il gioiello architettonico di Monteponi, nonostante dal punto di vista tecnico si dimostrò inefficace a risolvere il problema delle acque: attualmente è in corso di restauro grazie all’impegno dell’Associazione Pozzo Sella, che vuole restituire alla collettività questi magnifici spazi industriali. Insieme alle officine dove sono conservati attrezzi, tavoli da lavoro e torni rinascerà anche l’orologio della torre collegato alla sirena, che scandiva i tempi del lavoro in miniera e scandirà un domani i tempi dei nuovi lavori che qui nasceranno.

Il clou della visita a Monteponi rimane la Galleria Villamarina: l’ingresso è situato nel piazzale antistante il cancello, di fianco all’asilo. Entrando si compie una passeggiata ad anello nelle viscere della montagna: le guide dell’IGEA, la società che gestisce la dismissione di molti siti minerari sardi, raccontano il duro lavoro nel sottosuolo mostrando macchinari e attrezzature dentro una vera galleria mineraria. Spettacolare la sala argano del Pozzo Vittorio Emanuele, perfettamente conservata: un luogo simbolico per l’archeologia industriale poiché dalla sua occupazione nel 2000 partì l’idea del Parco Geominerario.

Monteponi è un’opera di avanguardia tecnica e industriale: oltre ai resti visibili vi è l’invisibile a centinaia di metri sotto terra. Il problema delle acque che non fu risolto dal Pozzo Sella venne affrontato con due grandi sforzi di ingegneria a distanza di un secolo l’uno dall’altro. Nel 1889 fu inaugurata la Galleria Umberto I: lunga oltre 4 km, collegava i cantieri sotterranei di Monteponi con la costa di Fontanamare, permettendone il prosciugamento. Seguirono negli anni altre opere per l’eduzione delle acque, sempre più in profondità. Fino al 1990, quando si inaugurò il colossale impianto a -200 s.l.m.: l’ingresso abbastanza anonimo dietro la chiesa del Pozzo P nulla lascia presagire di questo progetto faraonico, rimasto in funzione solo 7 anni prima che la miniera chiudesse definitivamente i battenti.

Al complesso appartiene anche l’area ferroviaria (Monteponi Scalo) ai piedi della montagna di fanghi rossi, oggi in stato di completo abbandono. Il piano inclinato, la centrale elettrica e lo stabilimento per la produzione di acido solforico necessario a trattare il minerale completavano quella che non era solo una miniera, ma un complesso industriale all’avanguardia e di importanza strategica nazionale.

La società Monteponi era proprietaria anche del sito di Campo Pisano, una grande miniera a sud di Iglesias i cui imponenti impianti di trattamento sono visibili da molti punti della città: il degrado avanzato in cui versa il complesso non riesce però a nascondere la bellezza di alcune delle sue strutture come la laveria.

Da Monteponi Scalo si prende la statale per S. Antioco in direzione del mare e percorrendo questa valle è tutto un susseguirsi di vecchie miniere. La strada si incrocia spesso con la vecchia ferrovia privata della Monteponi, che trasportava il minerale a Portovesme dove poi prendeva la via del continente. Spicca per grandezza la Miniera di San Giovanni, con i suoi impianti in rovina sul crinale e il Villaggio Normann in stato di abbandono. Il vero fascino di questo luogo sta però nella montagna, dove nel 1952 alcuni minatori scoprirono durante uno scavo una magnifica grotta che intitolarono a S. Barbara, la loro patrona. Oggi è una delle maggiori attrazioni turistiche di Iglesias ed è possibile visitarla utilizzando il vecchio trenino minerario.

Seguendo la strada verso Gonnesa, al bivio per Fontanamare si prende la provinciale verso la costa. Arrivati al mare si incontrano i resti del camino di una fonderia e l’uscita della Galleria Umberto I della Miniera di Monteponi. Dopo Fontanamare comincia un tratto spettacolare durante il quale è complicato restare concentrati sulla guida. A Nebida, un villaggio minerario quasi in riva al mare, comincia un sentiero denominato “Miniere nel Blu”, che collega alcuni tra i più spettacolari siti minerari lungo la costa iglesiente fino a Piscinas, passando per Masua e Buggerru. Siamo nel Salto di Gessa, una zona montuosa ampiamente sfruttata in passato per l’estrazione di piombo e zinco.

Il sentiero comincia con le rovine della Laveria Carroccia del 1887, di fianco al campo sportivo, ma appena aggirata la collina si scopre la vera meraviglia: il mare più azzurro fa da sfondo a una delle costruzioni industriali più ardite al mondo. È la Laveria Lamarmora, edificata sul crinale scosceso quasi sull’acqua, per scaricare il minerale trattato direttamente sulle barche attraccate. Questo tempio della tecnologia mineraria di pietra e mattoni, dismesso dagli anni ’30, è oggi ridotto a una sorta di rovina archeologica di un’età dimenticata.

L’esposizione diretta all’erosione del vento e del mare da un lato crea questa magia del tempo, dall’altro mette in continuo pericolo l’esistenza stessa della Laveria, che necessiterebbe di un intervento di restauro. Dal sentiero si prende una ripida scalinata che porta fino alla struttura, che rimane completamente accessibile nonostante il suo evidente degrado. C’è anche uno schema che permette di capire il funzionamento dell’impianto, leggibile solo in parte poiché eroso anch’esso dagli elementi. La vista sul Mar di Sardegna e sul Pan di Zucchero di Masua è mozzafiato, specialmente al tramonto quando il sole accende le pietre di questa incantevole Laveria.

La visita delle miniere di Iglesias termina a Masua, dove attende il visitatore un’altra meraviglia dell’ingegneria sarda. Prima però c’è la Miniera di Masua, attiva già nel ‘600, si presenta oggi come una grande cava a cielo aperto su cui spiccano tre immensi serbatoi gialli e le rovine di un moderno impianto di trattamento in dismissione. Nel complesso è ospitato il Museo delle Macchine da Miniera, un’esposizione di oltre 70 tra macchinari e attrezzature provenienti da vari giacimenti sardi, tra cui spicca l’autopala Montevecchio, inventata nell’omonima miniera e diffusasi con grande successo in tutto il mondo.

Con uno sguardo al faraglione del Pan di Zucchero, oggetto anch’esso in passato di esplorazioni minerarie, ci dirigiamo verso Porto Flavia, il sito minerario forse più conosciuto di tutta la Sardegna. Molti pensano sia una miniera, anche perché le sue gallerie oggi sono utilizzate per raccontare ai turisti il lavoro dei minatori. In realtà si tratterebbe di un semplice sito di stoccaggio e carico del minerale, se non fosse che si è di fronte, anzi dentro una delle meraviglie dell’ingegneria mineraria mondiale.

© Giulia Tarei

Per “neutralizzare” i carlofortini che avevano il monopolio del trasporto del minerale dalla costa sarda al mare aperto (le navi non potevano avvicinarsi a causa del fondale), la società belga Vieille Montaigne, proprietaria di Masua, commissionò all’ing. Cesare Vecelli un sistema per caricare direttamente sui piroscafi. Egli progettò un colossale impianto di stoccaggio all’interno della montagna (che chiamò col nome di sua figlia), composto da due tunnel sovrapposti di 600 m ciascuno, collegati da 9 silos verticali dove veniva immagazzinato il minerale.

modello 3D per Virtual Tour  © IGEA SpA http://www.igeaspa.it/resources/cms/documents/3D_Mining_Complex_virtual_tour_1.pdf

modello 3D per Virtual Tour  © IGEA SpA http://www.igeaspa.it/resources/cms/documents/3D_Mining_Complex_virtual_tour_1.pdf

Questo arrivava con dei vagoni alla galleria superiore, dove veniva scaricato nei silos: quando doveva essere caricato sulla nave, l’imbocco inferiore del silo veniva aperto e il minerale finiva nel tunnel sottostante, dove un nastro trasportatore lo portava all’imbarco esterno. Qui, sotto un’architettura che ricorda la porta di un’antica città, c’era un braccio meccanico che trasbordava il prodotto sul piroscafo in rada.

Oggi mettendo il naso fuori dal tunnel non ci sono piroscafi in attesa di piombo e zinco, diretti verso Marsiglia o qualche porto del Nord. Si gode però di uno spettacolare panorama sul Pan di Zucchero e sul mare cristallino; viceversa, imbarcandosi dalla spiaggia di Masua verso il faraglione, è possibile ammirare il famoso portale di Porto Flavia, immaginando il duro lavoro di marinai e minatori, o più semplicemente facendosi un tuffo.

© Giulia Tarei

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